“Se io dovessi morire, tu devi vivere, per raccontare la mia storia”. Sono i versi iniziali del poema Se io dovessi morire che Refaat al Areer, poeta, professore all’Università Islamica di Gaza, aveva scritto alcune settimane prima che, il 6 dicembre scorso, un bombardamento aereo lo uccidesse. Come lui, sono almeno dieci gli scrittori, i poeti e gli artisti palestinesi morti dall’inizio del conflitto a Gaza.

In ogni guerra, almeno negli ultimi venti anni, abbiamo assistito alla persecuzione degli intellettuali. E quando a essere incarcerati o uccisi non erano personalità della cultura, sono stati i luoghi o gli oggetti, come i libri, a venir distrutti. Nel 2010, un’autobomba esplode davanti all’ambasciata egiziana a Baghdad. La deflagrazione distrugge completamente la casa di Jabra Ibrahim Jabra, scrittore palestinese scomparso nel 1994. Centinaia le prime edizioni di libri e i quadri bruciati. Cinque anni dopo, nel 2015, a Damasco la biblioteca di Abdel Rahman Munif, uno dei maggiori autori arabi del Novecento, viene vandalizzata e depredata.

Se è vero che promuovere l’arte e la letteratura serve a creare l’identità di un popolo, contribuendo a ciò che chiamiamo cultura, è altrettanto vero che colpirle produce il contrario: la sua scomparsa. E questo non è Un dettaglio minore, tanto per citare il titolo del libro di Adania Shibli, la scrittrice palestinese che, ad inizio ottobre, doveva essere premiata alla fiera del libro di Francoforte, salvo poi “rimandare la cerimonia” a causa, scriveva la Litprom, agenzia letteraria che organizza il premio, “della guerra in Israele”. Mentre in concomitanza il direttore della fiera, Boos, annunciava “spazio addizionale alle voci israeliane”. L’esclusione della Shibli causò una levata di scudi nel mondo della letteratura che portarono in cima alle classifiche il libro dell’autrice palestinese. Ma lontano dal clamore e dai salotti della fiera tedesca, a Gaza le personalità della cultura cominciavano a morire.

LA SPOON RIVER DELLA CULTURA PALESTINESE – È il 7 ottobre. Il poeta Omar Faris Abu Shaweesh è il primo a perdere la vita. Viene ucciso durante il bombardamento israeliano del campo profughi di Nuseirat a Gaza. Abu Shaweesh era stato cofondatore di diverse associazioni giovanili e aveva vinto numerosi premi nazionali e internazionali. Fra questi, nel 2013, gli era stato conferito quello del Consiglio della gioventù araba per lo sviluppo, patrocinato dalla Lega Araba. Poeta prolifico, aveva pubblicato diverse raccolte. Nel 2016 era uscito il suo primo romanzo. Come incriminare Israele era invece il titolo di un noto saggio scritto da Said Al-Dahshan, morto l’11 ottobre, su quali strumenti legali utilizzare per fare causa ad al governo di Tel Aviv.

Appena due giorni dopo, è il 13 ottobre, a venire uccisa nella sua casa a Gaza, insieme ai suoi due figli, è la pittrice Heba Zaqout. Dopo aver completato gli studi in belle arti all’università Al-Aqsa di Gaza, aveva cominciato a dipingere paesaggi della città vecchia di Gerusalemme, della moschea Al-Aqsa e della Chiesa della Natività a Betlemme. Nel 2020, Zaqout aveva finito una serie di dipinti di donne con in mano una colomba, una chiave e un liuto a simboleggiare rispettivamente: la pace, il ritorno e la cultura. La serie l’aveva resa celebre oltre la Striscia di Gaza. Mentre un anno dopo, nel 2021, in piena pandemia, c’era stata la sua prima esibizione I miei bambini in quarantena. La morte, il 16 ottobre, bussa anche alla porta dello scrittore Abdullah Al-Aqad. Il giorno dopo, è il turno dello storico Jihad Al-Masri: ucciso da una bomba insieme alla sua famiglia.

Il 20 ottobre, a venir colpita da un raid israeliano è la scrittrice e poetessa Heba Kamal Saleh Abu Nada, di 32 anni. Insieme a lei, perde la vita anche il figlio. Abu Nada, nel 2017 aveva pubblicato il romanzo L’ossigeno non è per i morti. Nata in Arabia Saudita da una famiglia di palestinesi del villaggio di Bayt Jirja, viveva a Khan Younis, nella Striscia. Nel suo ultimo post su X, datato 8 ottobre, aveva scritto: “La notte di Gaza è buia se non per i bagliori dei missili; tranquilla se non per il rumore delle bombe; terrificante se non per la tranquillità delle preghiere; nera se non per la luce dei martiri. Buona notte, Gaza”. Il 23 ottobre, a chiudere gli occhi, per sempre, sarà lo scrittore Abdul Karim Hashash.

Passano sette giorni. È il 30 ottobre. È la volta della pittrice Halima Al-Kahlout, ventotto anni, uccisa anche lei da un bombardamento aereo. L’estate scorsa aveva inaugurato la sua mostra: Frammenti di una città. Negli ultimi anni, prima della guerra, si era impegnata nel sociale, in particolare nell’utilizzo di materiali di riciclo per mettere l’attenzione su questioni come la disparità di genere. “Donne e ragazze – aveva dichiarato in un’intervista – sono i gruppi più emarginati nella forza lavoro: voglio portare l’attenzione su di loro partecipando a mostre e concorsi internazionali e mostrare le mie opere a tutto il mondo”. Questa era stata la strada maestra che aveva seguito anche la celebre regista Inas al-Saqa, morta sotto le macerie di casa. Insieme a lei, quel giorno, perdono la vita anche i suoi tre figli: Sara, Leen, e Ibrahim.

I raid sulla Striscia non si fermano. Il 6 novembre a perdere la vita è il poeta Shahadah Al-Buhbahan. Il 18 novembre, invece, è il turno dello scrittore e giornalista Mustafa Al-Sawwaf. Fra i suoi tanti incarichi, Al Sawwaf era stato caporedattore del primo quotidiano di Gaza. Mentre il 19 novembre scompare nel nulla un altro poeta, Musab Abu Toha: era diretto verso il valico di Rafah nel tentativo di lasciare la Striscia, insieme alla sua famiglia. Subito scatta l’allarme. Si mobilita la Pen International, associazione internazionale composta da scrittori, e altre istituzioni che chiedono il rilascio del poeta conosciuto a livello internazionale che, fra i tanti riconoscimenti, aveva vinto l’American Book Award 2023. La sua raccolta di poesie, Cose che potresti trovare nascoste nelle mie orecchie: poesie da Gaza, è stata pubblicata in inglese dalla prestigiosa casa editrice americana City Lights. La sorte del poeta è però più fortunata di quella dei suoi colleghi: riappare pochi giorni dopo. Una liberazione insolitamente rapida, aveva scritto Haaretz, probabilmente grazie alla pressione dei media internazionali e di alcune personalità del mondo letterario. L’avvocato di Abu Toha, Diana Buttu, racconta però che, prima di essere liberato, l’uomo era stato picchiato con pugni al viso e allo stomaco.

Il massacro dei poeti, però, non è ancora finito. Il 2 dicembre è il turno di Nour al-Din Hajjaj. A quattro giorni di distanza, a incontrare la morte sarà Refaat al Areer che aveva presagito il momento della morte nella poesia Se io dovessi morire. Sono circa le 18 del 6 dicembre quando l’ennesimo bombardamento aereo della giornata colpisce l’edificio dove si trova Al Areer. Insieme a lui muoiono due suoi fratelli, Salah e Mohammed, la sorella, Asmaa, e tre suoi nipoti. Numeri che si aggiungono a un bilancio che, proprio in quelle ore, supera la soglia delle 15mila vittime palestinesi. Nel 2015, contro la de-umanizzazione delle vittime che perdono il nome, la storia, diventando solo cifre, Al Areer era stato fra i fondatori dell’associazione We are not numbers WANN (Noi non siamo numeri). Dai seminari letterari organizzati dall’associazione erano nate un paio di raccolte di racconti scritti da giovani scrittori e scrittrici.

Fra questi autori anche Yousef Dawas, morto dopo il raid contro la sua casa nel nord di Gaza il 14 ottobre. Oltre a essere un chitarrista, Dawas partecipava attivamente alle attività di WANN. Nel gennaio 2023, aveva pubblicato un saggio intitolato Chi pagherà per i 20 anni che abbiamo perso?. Nel volume, lo scrittore raccontava la distruzione del frutteto della sua famiglia a causa di un attacco missilistico israeliano nel maggio 2022. Gli alberi del frutteto producevano olive, arance e clementine. La sua perdita, scriveva, “ha distrutto un pezzo importante del nostro passato. La storia della nostra famiglia. Il nostro patrimonio”.

È il 7 dicembre. L’ultimo a perdere la vita, insieme a tutta la sua famiglia, sarà il poeta Saleem Al-Naffar. “A volte canto della nostra disperazione – dichiarò in una delle ultime interviste, riguardo alla sua poetica – Ma forse il mio lavoro piace perché, nonostante questa disperazione, non cede mai all’odio né incita alla violenza”.

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