“Nel sangue mi è stato riscontrato un valore di 280 nanogrammi di Pfoa per millilitro, quando il limite massimo è di 8 nanogrammi. Quindi una quantità superiore di 35 volte. Era il 2018 quando la Regione Veneto mi ha convocato per il primo screening a cui sarebbero dovuti seguire visite ed altri esami. Invece non mi hanno più chiamato. Ho sollecitato inutilmente. Nulla. Ho dovuto arrangiarmi, prenotare gli esami in proprio e pagare tutto di tasca mia. Quando mi sono sposato, assieme a mia moglie siamo fuggiti dalla ‘zona rossa’, la più inquinata del Veneto dalle emissioni della Miteni. Dopo cinque anni sono ancora in attesa che la Regione mi chiami per il secondo screening, come è previsto dai protocolli”. Antonio (il nome è di fantasia) ha meno di quarant’anni, è un ingegnere elettronico, oggi ha un figlio. È una delle tante persone contaminate dai Pfas che sono state dimenticate dalla sanità veneta. Il racconto della sua odissea, uno schiaffo per chi si vanta della prevenzione operata dalla sanità pubblica, avviene nel silenzio irreale dell’aula della corte d’Assise di Vicenza dove si stanno processando i manager della Miteni di Trissino (Vicenza), l’azienda indicata nel capo di imputazione come causa dell’inquinamento della falda che scorre sotto il territorio di tre province del Veneto. Un disastro ambientale di cui sono testimoni impauriti, angosciati, abbandonati, tanti altri cittadini simili ad Antonio che si sono costituiti parte civile. Eppure il “Protocollo di screening della popolazione veneta esposta a sostanze perfluoroalchiliche” approvato con diverse deliberazioni dalla giunta regionale nel 2017 era chiarissimo: “Gli individui con concentrazioni sieriche di Pfas superiori all’intervallo di normalità e/o alterazioni degli esami bioumorali e pressori saranno inseriti in un percorso assistenziale di II livello per la diagnosi tempestiva di eventuali patologie croniche possibilmente correlate all’esposizione a PFAS”. Naturalmente, “a titolo gratuito”.

“SI È TUTTO BLOCCATO” – Improvvidamente, un avvocato degli imputati ha chiesto al testimone se da allora il livello di Pfoa sia sceso. La risposta è una rasoiata, un boomerang: “Non lo so. Saprò il valore solo nel momento in cui verrò chiamato dalla Regione Veneto. Non ci sono alternative, aspetto le screening di secondo livello. Come ho detto, si è tutto bloccato. Ho provato in ogni modo, ma non ne sono venuto a capo. Ho chiamato l’Ulss di Vicenza che mi ha rimandato a quella di Legnago, quella di Legnago mi ha detto di chiamare quella di Verona, a Verona mi hanno rimandato a Legnago”. “Ma lei non ha detto di essere stato visitato da un medico? Quindi è rientrato nel meccanismo…” insiste il legale. “No, non sono rientrato nel circuito. Fu solo una visita internistica, a mie spese, ottenuta grazie al medico di base dopo che le richieste erano state bloccate da un rimpallo di responsabilità. Siccome avevo anomalie di colesterolo e i trigliceridi alle stelle, per fare gli esami o l’eco all’addome ho dovuto pagare tutto io”.

“CONVIVO CON LA PAURA” – Non c’è di peggio che un allarme per valori abnormi e non sapere nulla. “Faccio accertamenti, vivo in costante ansia, sono preoccupato anche per i miei familiari. Mi domando quale sarà la mia vita futura. Adesso bevo solo acqua di bottiglia, seleziono gli alimenti, controllo che la frutta e la verdura non arrivino dai comuni contaminati della ‘zona rossa’. La mia qualità di vita è peggiorata, da un punto di vista personale, sociale, lavorativo e psicologico”. La voce di Antonio è soltanto una delle tante che si sono levate nell’aula giudiziaria di Vicenza dove è in corso un processo doloroso per una vicenda che ha cambiato l’esistenza di migliaia di persone. Enrica (nome di fantasia): “Soffro di attacchi di panico, mi è accaduta una cosa più grande di me. Ogni giorno vivo nella preoccupazione. I Pfas hanno cambiato il mio quotidiano. Il secondo screening non l’ho ancora fatto, mi hanno detto per causa del Covid. Forse mi chiameranno nel 2024, anche se le prime analisi risalgono al 2018. Ho dovuto informarmi su internet perché non ci dicevano niente”.

“QUEL GIORNO MI SENTII COME UNA CAVIA DA LABORATORIO” – Laura è una delle ‘mamme no Pfas”. I suoi figli sono nati sottopeso, ma siccome vive nel Padovano pensava che i Pfas non la riguardassero. “Un giorno partecipai a una conferenza sui PFAS a Boston per portare l’esperienza italiana. Una ricercatrice mostrò gli studi su cavie da laboratorio gravide, che dopo la somministrazione di Pfas avevano manifestato un ritardo nella crescita dei loro feti. Quel giorno compresi quello che mi era accaduto in gravidanza, mi sentii anch’io come una cavia…”. Parla e si indigna: “Io ero tranquilla, perché bevevo acqua del rubinetto. Ma è con quell’acqua che i Pfas sono entrati in casa nostra: ho inconsapevolmente passato queste sostanze ai miei figli già durante la gravidanza. Si sapeva bene cosa provocavano i PFAS: era già successo anni prima in Ohio ma da noi è andata anche peggio.

“MI CHIEDO COME E QUANTO VIVRO’” – Franco (nome di fantasia) abitava a 100 metri dal torrente Poscola, uno dei veicoli dell’inquinamento. Anche lui si è trasferito, è fuggito. Ma ormai i Pfas lo avevano raggiunto, attraverso l’acqua di rete e i prodotti dell’orto. “Quando l’ho capito, da un servizio di ‘Report’, ho cominciato a comperare solo acqua in vuoto a perdere. Per l’orto ho usato acqua piovana”. Poi è stato un calvario, con una delicata operazione per un tumore, esami, tac, ecografie, risonanze magnetiche. Poi problemi ormonali, visite psicologiche. E adesso controlli ogni sei mesi. “Sto tentando di avere un figlio, ma mi chiedo come vivrò, quanto vivrò, se avrò dei figli e quali problemi avranno”.

“DAVANTI A QUEI NUMERI MI MISI A PIANGERE…” – Un altro testimone, laureato, di Montagnana in provincia di Padova: “Vivo in un incubo perenne, ho sempre paura che mi trovino qualcosa. Tutto cominciò nell’agosto 2018, quando lessi gli esiti dello screening. Avevo 570 nanogrammi per millilitro, 70 volte oltre la soglia consentita. Quel giorno, non mi vergogno a dirlo, mi misi a piangere”. Marino (nome di fantasia) aveva tre figli, tutti con valori altissimi di Pfas. Uno di loro è morto di linfoma un anno e mezzo fa, prima di poter fare il secondo screening, un altro deve convivere con un tumore benigno. Saranno gli avvocati a discutere se e quale correlazione vi sia tra patologie e le sostanze perfluoalchiliche che l’organismo non riesce ad espellere.

“CI TROVAMMO, QUATTRO MAMME AL BAR” – “Ho letto migliaia di documenti, in nessuno c’è scritto che i Pfas siano innocui” esordisce davanti ai giudici Michela, una ‘mamma no Pfas’. “Quando ricevetti nel 2017 gli esiti che riguardavano mia figlia, con valori superiori di 11 volte al consentito, cominciai a cercare notizie. Nel sito del Comune di Lonigo trovai una lettera del direttore generale della sanità del Veneto, Domenico Mantoan, che metteva tutto nero su bianco. La causa era la Miteni, la falda era contaminata e c’era l’elenco delle patologie correlate. Prima di allora non sapevo niente. Ci siamo telefonate, tra mamme con i ragazzi della stessa età. Ci trovammo al bar e scoprimmo che tutti erano nella stessa situazione. In pochi giorni passammo da quattro mamme al bar a 80, in dieci giorni diventammo 200. Da allora non ho smesso di portare avanti il lavoro, perché la gente deve sapere cosa è accaduto e chi è stato”.

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