Smettere di mangiare McDonald’s e bere caffè Starbucks per mostrare solidarietà alla causa palestinese. È questa la tendenza sui social in Indonesia e Malesia, dove migliaia di utenti hanno deciso di sabotare le multinazionali che hanno in qualche modo dato supporto a Israele, in una campagna di boicottaggio promossa su Facebook e Tik Tok da diversi influencer ai danni di oltre 120 brand internazionali. Dalla marca di shampoo Head&Shoulders alla big tech Hp, fino al settore alimentare dove sono coinvolte, tra le altre, Pringles, McDonald’s, Burger King, Pizza Hut e Carrefour, sono molte le aziende che nelle ultime settimane hanno dovuto fare i conti con gli attacchi social del pubblico di fede musulmana.

“Siamo di fronte a un utilizzo estremamente emotivo delle piattaforme che rispondono al bisogno di contenuti politicizzati e di carattere religioso che i media tradizionali non riescono a offrire”, spiega a ilfattoquotidiano.it Rachmah Ida, professoressa di Media Studies presso l’università di Airlangga, la seconda più antica e prestigiosa dell’Indonesia. “La società indonesiana per esempio è fortemente improntata sul concetto di comunità ed è per questo che la conversazione sui social ha così tanta risonanza”, continua sottolineando che il bacino di utenza dei social nel Paese rappresenta oggi un ceto medio con un crescente potere d’acquisto su cui fare leva.

A un mese dallo scoppio della guerra in Medio Oriente, anche il Sud-Est asiatico, dimora per 240 milioni di persone di fede musulmana, ha fatto sentire la sua voce con manifestazioni e cortei in diverse città, da ultimo quello di domenica 5 novembre a Jakarta che ha visto oltre 2 milioni di indonesiani vestiti di bianco e con al collo una kefia radunarsi di fronte al Monumento nazionale (Monas) di piazza Merdeka per chiedere la fine dei bombardamenti nella Striscia di Gaza. E proprio in Indonesia, il più popoloso Paese a maggioranza musulmana del mondo con oltre l’87% della popolazione fedele all’Islam, nelle ultime settimane le pagine dei social media si sono riempite di appelli contro marchi accusati di legami con Israele. McDonald’s, ad esempio, è finito nel mirino degli utenti dopo che la sede israeliana del franchise ha fornito pasti gratis ai soldati delle Forze di difesa israeliane (Idf). I ristoranti della catena di fast food americana attivi nei Paesi a maggioranza musulmana hanno presto sottolineato che si trattava di una decisione indipendente del gestore delle sedi in Israele, ma la miccia del boicottaggio nel Sud-Est asiatico era ormai accesa.

@gherasindonesia Membalas @vKng ini kak videonya, mari boycott mereka dan dukung umkm negeri #freepalestine #boycottisrael #gheras #gherasindonesia ♬ suara asli – ???? – ᥅꠸ᦔ᭙ꪖꪀꪑꪖꪶ꠸ᛕ

In Malesia invece, dove i musulmani sono circa 20 milioni e dove il primo ministro, Anwar Ibrahim, si è più volte espresso a favore del sostegno politico ad Hamas, il boicottaggio ha riguardato soprattutto Nescafé, Cadbury e Starbucks, tacciate di “islamofobia” e di avere espresso solidarietà al popolo israeliano. Diventato virale online tra gli utenti malesi è a questo proposito un post Facebook del comico Nik Mohamad Kahiri che mostra un pacco di beni alimentari delle tre marche scrivendo che il suo vicino è “seriamente arrabbiato con Israele” e ha deciso di “buttare via tutta questa roba”. Come lui, centinaia di utenti hanno condiviso fotografie per documentare il loro disfarsi dei beni “contagiati” perché filo-israeliani. Allo stesso modo anche la compagnia tech con sede a Singapore, Grab, la Uber del Sud-Est asiatico, ha visto molti utenti cancellare il loro abbonamento dopo che la moglie del fondatore dell’azienda ha pubblicato alcuni scatti del suo ultimo viaggio in Israele dicendosi “devastata” nel vedere lo stato in cui era caduto un Paese del quale si era “innamorata”. L’oltraggio social degli utenti si è così tradotto in boicottaggio online e la compagnia è stata costretta a rilasciare una dichiarazione ufficiale nella quale ha comunicato che Grab è “dalla parte dell’umanità e spera per la pace e per un cessate il fuoco”.

@i_imajinasi Maaf Saat ini ku Beralih ke Warkop Made in Indonesia ???? ???? … #freedom #palestine???????? , #boycott #strubucks #bye #foryou ♬ suara asli – dhencore

Il boicottaggio come modalità di protesta sembra avere guadagnato trazione dall’inizio del conflitto il 7 ottobre. Lo conferma a ilfattoquotdiano.it Stephanie Adam, membro della Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele (Pacbi) e tra i membri fondatori di Bds (Boicottare, Disinvestire, Sanzionare), lobby a guida palestinese che promuove la “fine dell’occupazione israeliana” attraverso tattiche di nonviolenza: “Nelle ultime settimane abbiamo assistito a un’impennata di persone che hanno scelto di partecipare al boicottaggio di marchi, prodotti e servizi complici delle violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele e del genocidio di 2,3 milioni di palestinesi a Gaza”, racconta. “Le nostre caselle di posta elettronica sono state inondate di messaggi su come essere coinvolti e su quali prodotti e servizi boicottare”. Il supporto si è esteso a tutto il cosiddetto Sud Globale con “milioni di persone, soprattutto nei Paesi a maggioranza musulmana, che sentono la profonda ingiustizia inflitta ai loro fratelli e sorelle palestinesi a Gaza”, continua Adam. Il movimento Bds, attivo anche sul nostro territorio con la divisione Bds Italia, fa delle campagne di boicottaggio mirate il proprio modus operandi, focalizzandosi su “un ridotto e selezionato numero di aziende per massimizzare l’impatto” delle azioni di boicottaggio, come successo per l’azienda francese di servizi energetici Veolia e per la multinazionale di prodotti di sorveglianza G4s. Sulla crescente partecipazione popolare Adam sottolinea inoltre che “persone in tutto il mondo sono sconvolte, arrabbiate e talvolta si senza speranza” ed è per questo che in molti si sentono “obbligate a boicottare qualsiasi prodotto e servizio legato in qualche modo a Israele”.

Da valutare resta il reale impatto del boicottaggio e quanto la denuncia sui social si traduca effettivamente in un’astensione dall’acquisto. Riscontri più puntuali in tal senso saranno possibili solo con la diffusione dei dati di bilancio relativi al periodo considerato. Quel che è certo è che nell’ultimo mese, a seguito della campagna online, i titoli Grab hanno perso in borsa quasi il 9% mentre lo scorso 12 ottobre, a due giorni dal picco delle proteste sulle piattaforme, McDonald’s ha toccato il minimo storico di 245,5 dollari per azione. Anche i titoli di Starbucks sembrano aver risentito delle iniziative ma non quanto le altre aziende. Il 12 ottobre per esempio le azioni della catena sono scese a 91,4 dollari, valore più basso dall’inizio delle dimostrazioni sui social per poi recuperare nelle sedute successive.

Il rischio è comunque che il boicottaggio lanciato dalla comunità musulmana rimanga “performativo“, limitato cioè allo sfogo sui social senza conseguenze dirette. In Indonesia ad esempio, questa non è la prima volta che su Tik Tok si grida allo scandalo. “Era già successo all’indomani del divieto in Francia di indossare l’abaya nelle scuole“, ricorda a proposito la professoressa Ida. “In quel caso diversi utenti avevano dichiarato di non volere più comprare le borse di Louis Vuitton, ma è probabile che molti di loro non potessero permettersele neanche”. E conclude: “Anche in questo caso, anche se particolarmente sentito, non è detto che il boicottaggio sia osservato da tutti. I social rispondono a un bisogno emotivo e lanciano messaggi religiosi di speranza, ma nel Burger King fuori dal mio ufficio, la fila c’è ancora”.

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