I miti di fondazione non coincidono quasi mai con una vittoria scintillante. Almeno nel calcio. Perché niente riesce a cementare una tribù meglio della sconfitta più oscena e dolorosa. È una legge talmente ferrea da apparire quasi veterotestamentaria. Come se il cadere nella polvere non escludesse il concetto di elezione divina, ma lo elevasse a sistema. Come se il dover vagare per anni in un deserto senza vittorie convincesse un popolo della propria specialità e specificità. È una lezione che i tifosi della Roma avevano imparato già il 30 maggio del 1984, quando avevano perso la finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool. Ai rigori. In casa. E poi ancora sette anni più tardi, quando la possibilità di alzare al cielo la Coppa Uefa era scoppiata come una bolla di sapone nella doppia finale contro l’Inter. Ma è nella serata del 19 marzo 1996 che la disfatta europea diventa genere letterario. Roma contro Slavia Praga. Quarti di finale di Coppa Uefa. In palio non c’è un trofeo, ma qualcosa che vale molto di più: la possibilità di dilatare la speranza, di continuare a vagheggiare quella coppa. La serata è fredda, il campo è zuppo. È come se anche la città volesse aumentare il senso drammatico di quella nottata. Perché la Roma non deve vincere, deve compiere un’impresa. Per passare il turno è costretta a battere gli avversari con almeno tre gol di scarto. Il successo dell’operazione è talmente improbabile che finisce per diventare prima possibile e poi addirittura atteso. Anche se nella squadra di Mazzone niente sembra più funzionare. Anche se alcuni dei sembrano arrivati al loro crepuscolo.

“Se abbiamo paura di questi”
In verità quella serata è iniziata due settimane prima. Il 5 marzo la Roma vola Praga per la gara di andata. Tutti si aspettano una vittoria. Netta, definitiva, inappellabile. Poi quando scendono dalla scaletta dell’aereo capiscono che le cose potrebbero andare in maniera molto diversa. La città è coperta dalla neve. Secondo qualcuno sembra di vivere in un presepe. Per altri di stare chiusi in un freezer. Il prato verde dello stadio di Strahov è congelato: compatto come il cemento, scivoloso come un telo saponato. “Non mi piacciono i campi da sci” dice Mazzone preoccupato. Ma anche lo Slavia è un mistero. Il campionato è fermo da tre mesi. Così la squadra è andata a prepararsi in Portogallo. Roberto Pruzzo è andato a osservarla, ma non è stato fatto entrare. L’unica cosa che si conosce è la passione del tecnico František Cipro per Zeman. “La Roma è una grande squadra – dice – tanti campioni. L’ho vista nel derby e non sono rimasto colpito favorevolmente. Gioca all’antica, come ancora tante squadre italiane. Preferisco il gioco della Lazio e stimo molto Zeman”. Prima della partita parla anche Cervone. “Se abbiamo paura di questi è meglio tornare subito a casa”. Non dice “Loro”, non dice “I nostri avversari”, non dice “Lo Slavia”. Dice “Questi”.

È una parola imbevuta di hybris che diventa prima destino e poi sentenza. Intabarrata in un completino verde acetato, la Roma pattina per il campo senza mai sapere bene cosa fare. Il pallone non rotola, scivola. L’unico a fare la differenza è Cervone. Ma al contrario. Al minuto numero nove lo Slavia conquista una punizione. La posizione è defilata. Parecchio. Così il portierone romanista si piazza due metri davanti alla linea di porta. La parabola di Poborsky è spietata. Si alza per poi abbassarsi velocemente. Troppo. Quando se ne accorge, Cervone è già scavalcato. La sfera passa sopra la sua mano protesa e sotto la traversa. Fino a strofinarsi contro la rete. È un errore che riapre vecchie ferite. Perché richiama quella frase che Sensi aveva dedicato a Cervone all’indomani di un derby: “Ieri il nostro numero uno è uscito più volte dai pali per andare a cicoria”. Qualche minuto più tardi Balbo centra la traversa. Ma è nella ripresa che la sconfitta della Roma acquista le proporzioni grottesche della disfatta. Dopo quattro minuti lo Slavia crossa da destra. È un pallone docile e innocuo. Solo che Cervone se lo lascia sfuggire. In mezzo all’area Vagner deve solo spingere in rete. È un risultato pesante che rischia di diventare piombo nel finale, quando Petruzzi si fa espellere e i biancorossi sfiorano il terzo gol. “Stavamo appena in piedi, sembravamo ballerine” dice Mazzone.

Il brutto anatroccolo
Sensi è furibondo e sconcertato. “Ho visto una Roma grassa e borghese” sentenzia. In tre anni il presidente ha già investito 130 miliardi di lire sul mercato. Eppure il suo progetto piratesco e picaresco di contendere lo scudetto alle squadre del nord non è riuscito ad assumere nemmeno una forma embrionale. Per giorni Sensi non fa altro che denigrare i suoi giocatori davanti ai giornalisti. La domenica successiva la Roma pareggia in casa contro il Cagliari. È una gara orribile. “C’avete rotto il cazzo” cantano i tifosi all’intervallo. È un buffetto rispetto alle parole del presidente. “Scandalosi, giocano come i ragazzini, non meritano la maglia della Roma. Non meritano questi tifosi. La prossima volta manderemo in campo la Primavera”. Ma il presidente diventa particolarmente verboso quando deve parlare di Giannini. Le ruggini risalgono a due anni prima, quando il capitano aveva sbagliato un calcio di rigore contro la Lazio. “Chi non è capace di segnare un rigore in un derby non è degno di indossare la maglia della Roma”, aveva detto Sensi. Poi le cose erano addirittura peggiorate. Nell’ultima stagione il capitano è stato poco più di una comparsa. Colpa di un infortunio alla caviglia che lo ha tenuto fuori da ottobre a gennaio. Ma anche di un’obsolescenza che ne limita la velocità in campo. Giannini torna in campo nella sfida di San Siro contro l’Inter. E la sua prova non è indimenticabile. I nerazzurri vincono 2-0. A fine partita Sensi critica Mazzone per aver stravolto il centrocampo.

Il presidente non fa nomi, ma l’allusione al Principe è palese. Così Giannini sbotta. Il giorno dopo si presenta davanti ai giornalisti e dice: “Chiederò a Mazzone di non utilizzarmi più fino al termine della stagione. Continuerò ad allenarmi, ma resterò nel mio angolo. E a giugno andrò a giocare all’estero”. È una bomba che fa deflagrare lo spogliatoio. Sensi e il capitano si incontrano. La situazione è delicata. Il presidente dice di aver ricomposto la frattura ma poi ci tiene a sottolineare: “Il suo procuratore, Zavaglia, mi ha detto che Giannini si arrabbia con le figlie e la moglie per delle stupidaggini. Il disagio del giocatore, ripeto, in questo momento è evidente: lui vuole tornare ad essere sereno ed è nostro desiderio aiutarlo affinché ritrovi presto lo stato d’animo di una volta”. Sono parole private dette in pubblico come in una famosa poesia di TS Eliot. E servono solo a rendere ancora più surreale la situazione. Tre giorni prima della sfida di Praga la Roma sta pareggiando per 1-1 in casa del Parma. Giannini entra a meno di un quarto d’ora dalla fine. Al 90° l’arbitro Bettin assegna un rigore ai giallorossi. Lo batte il dieci. Nonostante in carriera abbia sbagliato almeno la metà dei tiri dal dischetto che ha calciato. Stavolta il risultato non cambia. Bucci si allunga e neutralizza. Giannini è paralizzato. Il Principe è regredito fino a tornare brutto anatroccolo.

L’uomo con la fascia a braccio
Non è un dettaglio da poco. Perché Thern non sta bene. Significa che Giannini dovrà giocare la partita di ritorno contro lo Slavia Praga. E anche dal primo minuto. È un’idea che intriga solo Mazzone. Il mister prepara la partita in gran segreto. Poi manda in campo Balbo, Fonsenca, Totti e Giannini. Tutti quanti insieme. La sera del 19 marzo l’Olimpico è un’exclave dell’inferno sulla terra. Sugli spalti non potrebbe entrare più neanche uno spillo. Settantamila voci si fondono insieme in un unico ruggito. Tutto intorno alla curva corre uno striscione rosso. Sopra c’è scritto in giallo: “Una fede, una volontà, un traguardo… Vincere malgrado tutto”. “La cornice di pubblico lo vedete è davvero emozionante – dice Gianni Cerqueti in telecronaca – un enorme abbraccio avvolge Mazzone e la sua squadra, memorabile la scenografia per allestire la quale i tifosi hanno lavorato con tanto amore per alcuni giorni”. Poi le squadre escono dal tunnel degli spogliatoi. Giannini guida i suoi compagni. Ha la fascia da capitano allacciata intorno al braccio sinistro e il gagliardetto della Roma stretto in una mano. “Giannini festeggia l’onomastico – spiega Claudio Icardi – un capitano sul filo che potrebbe diventare, in sintonia col calendario, San Giuseppe oppure capro espiatorio”. Della passione di Cipro per Zeman non è rimasto quasi nulla. Lo Slavia si chiude e riparte. Ancora e ancora e ancora. È in quel momento che succede qualcosa di bizzarro. La partita non viene scandita dalle azioni di gioco, ma dai cori dei tifosi.

“Forza Roma olé” continuano a gridare. Mentre Balbo spara alto dal cuore dell’area di rigore. Mentre Carboni svirgola davanti al portiere avversario. Mentre Di Biagio centra un palo da fuori area. Non si fermano mai. E più la squadra di Mazzone sperpera e scialacqua, più Cervone si riscatta dicendo no a Penicka e Poborsky, più lo stadio continua ad alzare il volume, a soffiare sulle ali di cera di una squadra che prima del fischio di inizio sembrava sgangherata. L’importante non è più passare il turno, ma esserci, aspettare insieme l’orgasmo dell’impresa o la castrazione della disfatta. Il primo tempo finisce 0-0. Eppure nessuno sembra preoccuparsi. In mezzo al campo Giannini gioca come non gli capitava da tempo. Testa alta, spalle larghe. Interrompe l’azione e verticalizza, strappa applausi. Al 15° Moriero insacca con un destro da fuori area. Ma è poco. Ancora troppo poco. Le lancette accelerano come se fossero impazzite. A dieci dalla fine la Roma ancora non ha trovato il gol del pareggio. “Si può dire che lo Slavia Praga ha superato il momento peggiore?” Chiede Cerqueti in telecronaca. Sembra tutto finito. Ed è allora che succede l’imprevedibile. Totti, che porta l’8 sulle spalle, viene steso sulla trequarti. Carboni sistema la palla sul sinistro e calcia in mezzo. È una palla strana. Corta, liftata, non troppo alta. Un uomo in maglia rossa si materializza nell’area dello Slavia e si avvita su se stesso.

Il tocco è leggero, ma comunque sufficiente a far entrare la sfera al centro della porta. L’uomo si sfila la maglia e inizia a correre sotto la Curva. Si chiama Giuseppe Giannini e senza l’infortunio di Thern lui quella partita non l’avrebbe neanche giocata. “E poi c’è chi non crede alle favole – si emoziona Icardi in telecronaca – è un Principe che ha preso sottobraccio la sua Roma, non ha sbagliato praticamente un pallone”. L’immagine di Giannini che esulta diventa iconica. Sembra la raffigurazione di un Santo, con la faccia stravolta dalla fatica e dall’estasi insieme. È una serata perfetta. O quasi. Manca ancora un gol per passare il turno. Così al 9° del primo tempo supplementare Totti taglia tutto il campo con un passaggio e innesca in profondità Moriero, che alla vigilia ha detto di aspettare questa partita con la stessa ansia con cui aspetta la nascita del figlio. L’ala sbuca alle spalle del difensore e incrocia il tiro. È il 3-0. La Roma ce l’ha fatta. Ha battuto lo Slavia. Ma ha battuto soprattutto i suoi fantasmi. La squadra di Mazzone deve solo far scorrere il cronometro. Ma all’improvviso i si ritrova imprigionata in quella frase di José Luis Borges: “È un miracolo. E i miracoli fanno paura”. Al settimo del secondo tempo supplementare Stejskal rinvia con i piedi e Aldair buca di testa. La palla arriva a Vavra che fa passare il pallone fra le gambe di Lanna e lo spedisce in fondo al sacco. “Non ci voleva” dice il telecronista. L’Olimpico si ammutolisce. I muscoli si sgonfiano. Gli occhi si inumidiscono. Il risultato non cambierà più. La Roma ha fatto un capolavoro e poi ci ha scarabocchiato sopra. È una serata amara che per qualche strano motivo genera un ricordo dolce. Quello di un senso di appartenenza completamente scollato dal risultato.

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