“Le dinamiche simili a un videogame rendono il rider meno cosciente di essere un lavoratore. L’algoritmo prende il sopravvento e la sicurezza passa in secondo piano, tanto che i rider raccontano di aver fatto inversioni a U o aumentato pericolosamente la velocità per massimizzare i tempi di consegna”. A parlare è Laura Carrer, giornalista e documentarista che insieme a Luca Quagliato racconta luci e ombre della gig economy (il modello di lavoro a chiamata) e della professione dei rider, i fattorini delle consegne nell’era digitale che siamo ormai abituati a vedere sfrecciare per le grandi città europee, nel docu-film animato “Life is a game“. Attraverso le storie di 13 rider operativi nelle città di Milano, Berlino, Barcellona, Atene e Bruxelles, il documentari- inchiesta esplora la complessità di una professione diventata il simbolo della digitalizzazione, che dietro la patina della comodità portata dalla tecnologia nasconde una realtà fatta di precarietà e alienazione dei lavoratori al servizio delle piattaforme.

Il docu-film, prodotto da Irpi Media (progetto italiano di giornalismo investigativo), con il supporto del Centro Hermes, Fondazione europea per la Cultura e con le case di produzione cinematografiche Enece Film e Nepenthe Film, sarà presentato in anteprima il 16 settembre al Teatro Litta (ore 14:00) nell’ambito del 9° Festival internazionale del documentario, Visioni dal Mondo, a Milano.

“Volevamo ridare umanità ai rider, dando loro voce al di là della divisa”, racconta a ilFattoQuotidiano.it Carrer. “Parliamo di una figura che si fa fatica a considerare davvero come lavoratore perché, complice la narrazione di media e piattaforme, si tende a screditare senza capire bene a chi appartengano e chi debba proteggerli”, continua. A capo di questa categoria di lavoratori, start up multinazionali che hanno nello sviluppo di applicazioni il proprio core business. I rider si interfacciano così con delle piattaforme intermedie invece che con veri e propri datori di lavoro con obblighi legislativi e doveri fiscali, rimanendo isolati e spaesati nei momenti di bisogno in quanto “collaboratori” di un ambiente lavorativo non tradizionale.

È il capitalismo delle piattaforme, che sfrutta i dati per massimizzare i profitti e trascura la componente umana del lavoro. A volte anche a scapito della sicurezza. Come spiega Carrer, le applicazioni per la consegna di beni con cui si interfacciano i rider sottopongono il lavoratore a dinamiche di gamification, ovvero di gestione di una mansione secondo logiche di premi e penalizzazioni. Consegni il pacco più velocemente? Guadagni qualche euro in più. Piove a dirotto? Ecco un bonus per incentivare a continuare le consegne. “Ci si trova sopraffatti dall’algoritmo, tanto da assumere comportamenti che altrimenti si considererebbero pericolosi, come fare inversioni a U o andare più veloce per ottenere dei premi”.

Con un approccio etnografico unito a una storyline animata che segue un personaggio fittizio, il docu-film lascia parlare i protagonisti di questo ambiente lavorativo del nuovo millennio. Uomini e donne, spesso migranti, che “si sono trovati a fare il rider” in circostanze diverse. Come Yolimar, ragazza venezuelana con un diploma universitario in ambito sanitario non riconosciuto a Barcellona, dove lavora come rider. “La sua è la storia a cui sono più affezionata perché ci ha offerto uno spaccato su cosa significa essere una donna immigrata in questo settore, con tutti i diversi livelli di discriminazione che questa ragazza ha dovuto affrontare”, conclude Carrer. Per lei, come per molti altri, quando il capo è un algoritmo, la vita non è un gioco.

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