Il papà del “Mono” aveva giocato al futbol, in Serie A cilena con la maglia giallonera del Club de Deportes Badminton. Erano gli anni a cavallo tra i Trenta e i Quaranta, poi il centrocampista dai piedi buoni – entrambi, sia il destro che il sinistro – aveva smesso e si era dedicato principalmente al lavoro di chimico grafico. La passione per il pallone era rimasta intatta e l’aveva trasmessa anche al piccolo Eduardo, per tutti “Mono” una volta diventato un muralista. Lo aveva fatto entrare nel settore giovanile dell’Audax Italiano, squadra della comunità italiana da sempre protagonista del calcio in Cile. Classe 1954, Eduardo con il numero otto sulla schiena, nel ruolo del padre Hector, è bravo e sogna di diventare professionista. Ma nella seconda metà dei Sessanta si appassiona di politica e arte, trascurando così il calcio giocato. Nel club sono molto conservatori, il compagno di squadra con più talento deve abbandonare perché vuole essere libero di portare i capelli lunghi.

“Mono” Carrasco diventa così un muralista e uno dei fondatori della Brigada Ramona Parra, composta da decine di giovani artisti cileni che aiutano Salvador Allende prima nella campagna presidenziale e poi successivamente dipingendo i muri del Paese per spiegare le riforme con un disegno a colori. Soprattutto al di fuori della capitale va per esempio spiegato a chi è analfabeta come le mamme devono trattare il mezzo litro di latte destinato dalla riforma ad ogni bambino. Sono anni belli per il “Mono”: anche senza il calcio giocato, continua a tifare per l’Universidad de Chile, conosciuta in tutta l’America Latina come il “Ballet Azul” per il bel calcio che faceva negli anni Sessanta. Mentre il padre per tutta la vita tiferà per la squadra con cui aveva esordito in Serie A e che nel 1950 era diventato il Club Deportivo Ferrobádminton grazie alla fusione con l’Unión Ferroviario.

Cinquant’anni fa, 11 settembre 1973, un colpo di stato rovescia il governo Allende, che morirà suicida durante il golpe, dando inizio ad una lunga dittatura militare di Augusto Pinochet. “Mono” fa parte della Gioventù Comunista Cilena e vede tanti ragazzi come lui rinchiusi nell’Estadio Nacional – dove la Nazionale italiana aveva affrontato quella cilena nella cosiddetta Battaglia di Santiago – diventato l’11 ottobre 1973 un campo di detenzione per prigionieri politici. “La mia fidanzata dell’epoca – racconta a ilfattoquotidiano.it Eduardo “Mono” Carrasco, che oggi abita in Piemonte – viveva a pochi passi dallo stadio e cercavamo di essere d’aiuto a quelli che erano imprigionati, a volte con l’unica colpa di aver violato il coprifuoco. Davamo aiuto logistico a chi veniva rilasciato nel tardo pomeriggio, perché facessero ritorno a casa per la notte prima delle 20, quando nel Paese scattava il coprifuoco. Spesso aiutavamo le famiglie cercando informazioni sui figli scomparsi. Nemmeno le guardie a volte erano a conoscenza dei nomi di chi era detenuto”.

Il 26 settembre la Nazionale cilena era andata a giocare la partita di qualificazione per i Mondiali in Germania in Unione Sovietica. Il 21 novembre venne svuotato lo Stadio Nacional dei dei detenuti per permettere la gara di ritorno, l’Urss per protesta contro il regime di Pinochet non si presentò. È la cosiddetta partita fantasma giocata per pochi secondi soltanto, da una sola squadra in campo, giusto in tempo per realizzare un gol a porta vuota. Dopo la rete di Francisco Valdes seguì un’amichevole con il Santos senza Pelé. “Fu una buffonata del regime – continua Carrasco – i calciatori cileni? Avrebbero potuto fare sicuramente qualcosa di più sulla scia di quanto fatto da artisti e musicisti per un Paese devastato dalla dittatura. Però in questi casi sempre si può fare meglio e va detto che molto spesso gli sportivi non erano sorretti da una istruzione adeguata”.

“Mono” rimane poco più di anno a Santiago, poi scavalca il muro dell’Ambasciata italiana e riesce ad arrivare in Italia, proprio come viene raccontato nel documentario di Nanni Moretti “Santiago, Italia”. Una volta a Roma – ma negli anni si sposterà anche a Bologna e a Milano, mettendo poi residenza definitivamente in Piemonte dove continua la sua attività di muralista soprattutto nelle scuole – il contatto con i genitori è complicato. Le lettere molto spesso non arrivano, il costo di una telefonata è elevatissimo e le linee sembrano sempre intasate. Solo un referendum nel 1988 mise fine alla dittatura di Pinochet. Nei primi anni Ottanta Mono era riuscito a portare mamma e papà in Italia. Rimasero qualche mese, prima di far ritorno in Cile. Allora “Mono” viveva a Milano e durante i pomeriggi il papà Hector sgattaiolava dall’appartamento e andava al campetto a seguire allenamenti e partitelle della squadra di quartiere. “Ritornava per cena – conclude Carrasco – e mi faceva la lista dei ragazzi più bravi che aveva visto”. Il calcio era rimasto ancora una lingua comune tra padre e figlio.

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