La secca del Fiume Po dell’estate 2022, la peggiore mai registrata negli ultimi 216 anni e a cui i media di tutto il mondo hanno dedicato massima attenzione mediatica, diventa anche la dimostrazione evidente del cambiamento climatico. Un evento così è atteso ogni sei secoli ma, in realtà, è parte di una tendenza di lungo termine. E così, sui dieci peggiori mesi di luglio degli ultimi due secoli per il fiume più lungo d’Italia, in termini di portata, sei si sono verificati dopo il 2000. La tendenza è quella all’aumento di intensità e frequenza dei periodi di siccità, dovuto ad alcuni fattori inequivocabilmente legati al riscaldamento globale. A dimostrarlo, ora ci sono i dati di una ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista americana Science Advances e condotta da studiosi dell’Università di Bologna e dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, a cui hanno partecipato anche ricercatori di altri istituti, in Usa, Germania, Singapore. “Dalla serie storica di dati sulla portata fluviale del Po nel tratto finale di Pontelagoscuro (non lontano da Ferrara), osservata su scala mensile dal gennaio del 1807 all’agosto 2022, è emerso che quella del luglio dello scorso anno è stata la secca più gravosa, con una portata del 30 per cento inferiore rispetto al secondo peggior periodo di magra registrato in luglio, ossia quello del 2006” spiega a ilfattoquotidiano.it il professor Alberto Montanari del Dipartimento di Ingegneria civile, chimica, ambientale e dei materiali dell’Università di Bologna, primo autore dell’articolo. “I fattori chiave per spiegare questo fenomeno sono i cambiamenti nella stagionalità dei flussi d’acqua nel fiume, causati in modo particolare da un calo delle precipitazioni nevose e dallo scioglimento anticipato delle nevi, oltre che da un aumento dell’evaporazione e dall’incremento dei prelievi d’acqua durante l’estate” racconta Montanari. Nel gruppo di ricerca anche Serena Ceola, sempre dell’Università di Bologna, Davide Zanchettin e Angelo Rubino dell’Università Ca’ Foscari Venezia, Hung Nguyen (Columbia University, in Usa), Sara Rubinetti (Alfred Wegener Institute, in Germania) e Stefano Galelli (Singapore University of Technology and Design).

Negli ultimi 20 anni, una serie di magre estive senza precedenti – “Abbiamo ottenuto una serie di osservazioni molto rara che copre 216 anni – spiega Montanari – Al mondo ce ne sono pochissime così lunghe”. È stata analizzata la portata fluviale media, considerando quattro periodi: solo luglio, giugno-luglio, maggio-giugno-luglio e, infine, aprile-maggio-giugno-luglio. Per tutti e quattro, la portata media del 2022 è di gran lunga la peggiore dal 1807. Al secondo posto c’è quella del 2006, sia per luglio sia per il periodo giugno-luglio. Per i periodi di maggio-giugno-luglio e aprile-maggio-giugno-luglio, invece, al secondo posto ci sono rispettivamente il 1945 e il 1944. “Guardando le portate estive, emerge nettamente che negli ultimi 20 anni si è registrato un calo con un susseguirsi di magre senza precedenti. C’è meno acqua in estate” racconta Montanari. Il dato: sui dieci peggiori mesi di luglio degli ultimi 216 anni, sei si sono verificati dopo il 2000. “E si tratta di un periodo di tempo – aggiunge – che coincide con l’accelerazione del riscaldamento globale”. Ma se la portata di giugno e luglio è calata negli ultimi 20 anni in modo molto evidente, considerando la media dei mesi primaverili ed estivi (aprile-maggio-giugno-luglio) il calo non è così netto.

Il ruolo della pioggia e, soprattutto, della neve – “Per trovare una spiegazione, abbiamo analizzato le precipitazioni sia liquide che nevose” spiega Montanari. Sono stati utilizzati i dati Era5 dei servizi Copernicus. Il calo delle portate fluviali estive (4,14 metri cubi al secondo in meno all’anno) è più rilevante del calo delle precipitazioni totali, tra quelle di pioggia e di neve. “Nel 2022 – aggiunge – è piovuto meno, ma non tanto da giustificare una magra così grave”. Anzi, in primavera la portata d’acqua nel fiume negli ultimi anni sta persino aumentando. “Accade perché in primavera anziché nevicare piove, a causa del riscaldamento locale e l’acqua nel fiume aumenta. Ma poi viene a mancare d’estate – spiega Montanari – anche a causa dello scioglimento anticipato della neve che ha sempre agito come una riserva d’acqua”. I dati confermano che la frazione di neve sul totale delle precipitazioni sta calando in modo significativo (dello 0,6% all’anno), mentre lo scioglimento della neve diminuisce, ogni anno, di circa 0,3 millimetri al giorno. Questi due fenomeni, soprattutto sulle Alpi ma anche a quote più basse, fanno sì che ci sia un cambio di stagionalità. C’è più acqua in primavera e meno d’estate, quando le alte temperature favoriscono anche una forte evaporazione.

Il contributo dell’evapotraspirazione – Ed esaminando i dati degli ultimi vent’anni è evidente un incremento anche di questo fenomeno, in particolare lungo la catena alpina: l’atmosfera si sta scaldando e l’evapotraspirazione, che comprende l’evaporazione e la traspirazione dalla vegetazione, aumenta ogni anno di 0,013 chilometri cubi, che rappresentano il volume totale di acqua evaporata su tutto il bacino. Dai dati Era5 emerge un trend significativo all’aumento, iniziato dal 1940, ma che è ancora più evidente dal 1980. “Guardando ai dati, il calo dei deflussi estivi del Po, eccezionale soprattutto guardando agli ultimi 20 anni – spiega Montanari – si spiega con un effetto combinato tra il riscaldamento globale (dato che è dai primi anni Novanta che le temperature hanno subìto un’impennata) che provoca un cambio di stagionalità e un aumento delle perdite per evapotraspirazione”.

Il ruolo dell’irrigazione – C’è poi un altro elemento critico: il forte aumento delle aree coltivate avvenuto nel Novecento ha portato a un massiccio prelievo di acqua dal Po per usi agricoli, che rappresenta oggi circa il 75 per cento dei prelievi totali. “Non ci sono dati disponibili di prelievo – spiega Montanari – se non quelli di estensione delle aree irrigate nel bacino padano, che sono passate da 0,86 milioni di ettari nel 1900 a 1,38 milioni nel 1960, fino a 1,63 milioni di ettari nel 2015” con un incremento del 100 per cento rispetto al 1900. Anche in questo caso, però, c’è un collegamento con il cambiamento climatico: l’aumento di intensità e frequenza dei periodi di siccità porta, infatti, a una maggiore necessità di acqua per l’irrigazione (in primavera e in estate), che a sua volta contribuisce ad abbassare i livelli del fiume. “Va detto – aggiunge Montanari – che il calo netto dei deflussi nei mesi estivi c’è stato negli ultimi venti anni, mentre nello stesso periodo non c’è stato un incremento di prelievo così forte di aree irrigate, più marcato fino agli anni Sessanta del secolo scorso”. In assenza dei dati di prelievo, resta il dubbio: “Potrebbero essere cambiate le colture e aver richiesto una maggiore irrigazione e, in parte, è avvenuto. Riteniamo che sia un aspetto che ha influito, ma che non giustifica in modo prevalente il calo di portata degli ultimi due decenni”. Il problema è come affrontare il futuro.

Come adattarsi – “Le proiezioni climatiche indicano un progressivo aumento della severità e della frequenza dei periodi di siccità meteorologica nell’area mediterranea” commenta Davide Zanchettin, professore al Dipartimento di Scienze Ambientali, Informatica e Statistica dell’Università Ca’ Foscari Venezia, tra gli autori dello studio. E aggiunge: “Anche se potrebbero passare anni, o persino decenni, prima che una magra come quella del 2022 si ripresenti, è urgente premunirsi e ridefinire la gestione della risorsa acqua già adesso”. Ma il fatto che, considerando tutti i mesi dell’anno, non ci sia un calo delle precipitazioni nel loro complesso (pioggia e neve), significa che l’acqua che manca in estate, c’è in altri periodi dell’anno. E va recuperata. “Se la neve non può più fungere da ‘deposito’ naturale, questa funzione può essere assolta dagli invasi” commenta Montanari, secondo cui “quelli piccoli sono particolarmente interessanti per l’agricoltura”.

Se si parla del bacino del Po, però, si pensa ai grandi invasi alpini. Le opportunità migliori non sono già sfruttate? “Credo che ci siano ancora opportunità. Il tema richiede la massima attenzione dal punto di vista della tutela ambientale e non parliamo di soluzioni eterne, ma alcune delle dighe realizzate hanno già più di cent’anni e sono ancora perfettamente funzionanti”. E i rischi per i territori? “Nella ricerca di una convivenza sostenibile tra uomo e natura, credo che l’invaso artificiale abbia rappresentato un buon esempio. Ci sono stati certamente dei progetti sbagliati, ma la stragrande maggioranza – anche a livello globale – si è rivelata un investimento produttivo. Ogni invaso artificiale rappresenta potenzialmente un rischio, ma statisticamente molto inferiore a quello di una magra che non siamo in grado di fronteggiare”.

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