“Macché coraggio, non c’erano alternative. Che fine farebbero gli 81 pazienti che abbiamo in questo momento? Li lasciamo in mezzo alla battaglia? Dobbiamo restare, con me sono rimasti in Sudan altri 38 italiani, medici e infermieri, anche se i più giovani cominciano ad essere provati. Sono partiti per l’Italia solo in 7, tre erano a fine missione, gli altri 4 sono amministrativi, perciò il loro contributo non era più essenziale, qui le banche ormai sono tutte chiuse”. Così Franco Masini, 72 anni, coordinatore medico per Emergency del Centro Salam di Khartoum, risponde così al giornalista del Corriere della Sera che lo ha intervistato facendogli domande su WhatsApp. Sono 7 gli operatori di Emergency che hanno scelto di tornare in Italia con il convoglio di evacuazione organizzato dall’ambasciata italiana. Tre di loro avevano già programmato il rientro, ma erano stati bloccati nel Paese dall’inizio degli scontri. Altri 46 operatori internazionali di Emergency invece – si legge in una nota dell’organizzazione – hanno deciso di rimanere in Sudan, dove proseguiranno il loro lavoro negli ospedali di Khartoum, Nyala e Port Sudan.

“Sono giorni estremamente difficili e di grande tensione a Khartoum, ma abbiamo deciso di rimanere qui per gli 81 pazienti in cura nel nostro ospedale. Non possiamo abbandonarli perché rischierebbero la vita” aveva già spiegato Franco Masini, medical coordinator del Centro Salam di cardiochirurgia di Emergency a Khartoum. “Tuttora molti colleghi dello staff sudanese non possono tornare a casa per motivi di sicurezza e stanno dormendo in ospedale per dare continuità di cura a pazienti ricoverati”. “Finora, nessuna delle nostre strutture e nessuno del nostro staff è stato attaccato o minacciato direttamente. Ognuno ha deciso individualmente se lasciare l’ospedale sulla base della valutazione delle precarie condizioni di sicurezza della capitale e dei bisogni dei pazienti – aggiunge Muhameda Tulumovic, coordinatrice del programma di Emergency in Sudan -. Oggi rimane chiuso il Centro pediatrico di Mayo, alle porte della capitale, dove non avremmo potuto garantire nessuno standard di sicurezza né per lo staff, né per i pazienti. Abbiamo ripreso il lavoro a Nyala, nel Sud Darfur, dove negli ultimi giorni i combattimenti si sono affievoliti. Anche nel nostro centro pediatrico di Port Sudan stiamo continuando le attività, ma lì la situazione è sempre rimasta sotto controllo”.

“È il momento più difficile finora, stiamo tentando di riorganizzarci e di mettere in sicurezza tutti i nostri novanta pazienti cardiopatici che in media hanno vent’anni e tra cui ci sono diversi bambini. Di sicuro dimetteremo quelli stabili. Non possiamo fare interventi in questa fase: dopo le operazioni non potremmo metterli in terapia intensiva e in una situazione di guerra, dove le cose cambiano così rapidamente, fare questo non sarebbe logico – dice Masini, che vive con i suoi collaboratori in un compound attaccato all’ospedale – Nelle prossime ore dovremo prendere decisioni importanti in base all’evolversi degli scenari. Una sola cosa adesso è certa: non lasceremo morire i nostri i pazienti”.

Emergency è presente in Sudan con il Centro Salam di cardiochirurgia a Khartoum e con i centri pediatrici di Mayo (Khartoum), Nyala (Sud Darfur) e Port Sudan, dove offre cure gratuite ai minori di 14 anni. Emergency ha lanciato un appello: “Chiediamo a tutte le parti in conflitto in Sudan di rispettare le nostre strutture sanitarie. I nostri ospedali sono luoghi neutrali, dove curiamo chiunque ne abbia bisogno, senza discriminazioni. Molti dei pazienti del Centro Salam di cardiochirurgia di Khartoum possono sopravvivere solo se costantemente assistiti, anche da macchine. Qualsiasi interferenza con l’attività medica metterebbe a rischio la loro sopravvivenza”.

A Karthoum, nell’epicentro delle violenze in Sudan, una cinquantina di italiani hanno deciso di non salire sui C-130 dell’Aeronautica militare che li avrebbero riportati a casa. Andrea Comino, missionario salesiano, è uno di loro, anche se consapevole di rischiare la vita ogni giorno. “Una bomba è caduta nel nostro laboratorio di Khartoum, per fortuna non c’era nessuno. I combattimenti continuano in diverse zone della città. Tutte le scuole sono chiuse e la popolazione è invitata a non uscire, ogni attività pubblica e privata è sospesa”, ha spiegato il prete parlando con i padri di Don Bosco, che nella regione sono impegnati negli insegnamenti in scuole tecniche e fanno formazione con i giovani affinché possano imparare il mestiere di carpentiere, meccanico o elettricista. Tra le comunità religiose cattoliche più presenti nella regione invece ci sono i padri comboniani con sei diverse comunità e in tutto una trentina di persone, tra cui sette italiani, che con questa terra hanno un legame particolare: “Non abbandoniamo nessuno, siamo in Sudan da 150 anni, da quando il fondatore Daniele Comboni è vissuto e morto qui, dove – spiegano – nel corso dei decenni abbiamo sviluppato attività cristiane e anche scolastiche a cui partecipano oggi circa un migliaio di persone, in maggioranza musulmani. I missionari italiani sono tra i più anziani, qualcuno di loro qui vive anche da cinquant’anni. Qui c’è sia evangelizzazione che dialogo con i musulmani, senza mai pretendere di convertirli, ma rispettando la loro realtà in un percorso comune. Oggi siamo lì a sopravvivere come tutti, per cercare di arrivare vivi alla fine della giornata. L’unico evacuato è un padre spagnolo per motivi medici”, spiegano.

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