Mangiamo, ci avveleniamo di Pfas e nessuno ce lo dice. Nell’Italia dell’inquinamento, dove la colpa non sembra mai essere di qualcuno, non sarebbe difficile trovare i nomi, i cognomi e le ragioni sociali di chi saccheggia direttamente l’ambiente o impedisce che ciò avvenga, solo perché evita di esercitare le funzioni di potere che gli spettano. Basterebbe coltivare la forza della memoria e la passione della ricerca. Greenpeace ha affidato a un dossier, ricco di documenti, alcuni dei quali inediti e provenienti dall’interno della Regione Veneto, la ricostruzione di inadempienze, silenzi, errori, sottovalutazioni, incapacità di prendere decisioni anche impopolari, ma necessarie, a tutela della salute pubblica. Il fronte è quello dei Pfas, le sostanze perfluoroalchiliche utilizzate in industria, che attraverso le acque e la contaminazione del suolo, alterano la catena alimentare, provocando gravi danni all’uomo. I Pfas sono stati troppo a lungo ignorati e ancora oggi i loro effetti non vengono affrontati, forse perché non causano morti improvvise, ma entrando nell’organismo determinano una degradazione silenziosa e ineliminabile.

La situazione più esplosiva è quella scoperta una dozzina di anni fa in Veneto, causata dall’azienda Miteni di Trissino, in provincia di Vicenza, che ha inquinato la falda di tre province (Vicenza, Verona e Padova), interessando più di 350mila persone. Un’altra zona critica è in Piemonte, nel polo chimico della Solvay di Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria. Segnalazioni provengono da numerose altre zone, perfino dalla Basilicata, anche se è tutto il bacino del Po ad essere contaminato, nel disinteresse delle istituzioni, come dimostra Greenpeace.

VENETO “ZONA DI SACRIFICIO”, COME LA TERRA DEI FUOCHI – “A distanza di molti anni – dice Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia – manca un quadro chiaro ed esaustivo sulla contaminazione da Pfas negli alimenti, non solo provenienti dalla Regione Veneto, ma più in generale a livello nazionale, inclusa tutta l’area del Po. Nonostante i numerosi allarmi, ad oggi non sono stati presi provvedimenti per tutelare la salute pubblica, ad eccezione del divieto di pesca nella zona rossa in Veneto”. Non ci sono solo i pesci di qualche fiume, c’è un lungo elenco di prodotti dell’agricoltura che risultano portatori di Pfas. L’accusa è grave: “Il mancato intervento delle autorità, di fatto, vìola il principio di non discriminazione e, nelle aree del Veneto più contaminate, crea le cosiddette ‘zone di sacrificio’ – com’è avvenuto ad esempio a Taranto per l’inquinamento provocato dall’Ilva e nella Terra dei Fuochi in Campania – dove la popolazione è costretta a vivere in condizioni sproporzionatamente peggiori e pericolose rispetto al resto d’Italia”.

“EMERGENZA FUORI CONTROLLO” – Il primo allarme dei Pfas negli alimenti prodotti nel Nord Italia risale a 15 anni fa. “Nonostante le prime allerte siano state trasmesse al Ministero dell’Ambiente e all’Istituto Superiore di Sanità (ISS) già nel 2007, ancora non abbiamo un quadro chiaro sul rischio sanitario derivante dal consumo di alimenti provenienti dalle zone inquinate. – continua Ungherese – La ragione? Una serie di ritardi, indagini parziali – o mai fatte – e negligenze istituzionali”. È una situazione ancora più pesante in alcune aree del Veneto, “dove l’emergenza Pfas è nota da tempo e dove monitoraggi parziali e la quasi totale assenza di misure per tutelare la salute pubblica condannano parte della popolazione a consumare cibo inquinato. Un’emergenza ambientale e sanitaria che risulta tuttora fuori controllo”. Anche perché “importanti filiere agroalimentari e zootecniche sono abbandonate al loro destino”.

LA PIANURA DEL PO È LA PIU’ COMPROMESSA – Nel 2007 lo studio “Perforce” stabilì che la Pianura Padana “era tra le più contaminate da Pfas in Europa, ma l’allarme rimase inascoltato”. Il professore Michael McLachlan, dell’Università di Stoccolma comunicò all’ISS di aver rilevato nel Po 200 nanogrammi per litro (ng/litro) di Pfoa (acido perfluoroottanoico), oggi noto per essere un potenziale cancerogeno per le persone, contro una media europea di 30 ng/litro. ISS non rispose, ma secondo Greenpeace “parte del personale era già a conoscenza del problema Pfas”. Solo nel 2008 avvennero i primi prelievi di sangue a Brescia e Roma per cercare Pfoa e Pfos, ma per i risultati si dovette attendere il 2010. Intanto l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (Efsa) con sede a Parma aveva pubblicato un primo rapporto su Pfas e alimenti, dimostrando il passaggio dai terreni alle verdure e la Ue aveva raccomandato agli Stati membri di “monitorare nel 2010 e 2011 la presenza di Pfas negli alimenti… pesci, carne, uova, latte e derivati, alimenti di origine vegetale”.

LA REGIONE ACCENTRA LE ANALISI – Dieci anni fa uno studio Isra-Cnr ha confermato l’inquinamento del Po e svelato che l’acqua considerata potabile in Veneto era portatrice di Pfas. L’ISS ha spiegato che “in Veneto bisogna far arrivare acqua non inquinata alle circa 300mila persone interessate” e consigliato “di estendere le analisi anche alla filiera alimentare, ritenuta ormai compromessa”. In Veneto fu il dipartimento di prevenzione Veterinaria della Regione a decidere autonomamente di analizzare due pesci presi in due laghetti a Vicenza e a Creazzo: “I campioni confermano la presenza di Pfas anche se non sono in uno dei 30 Comuni della ‘zona rossa’ più contaminata”. Greenpeace afferma che, stranamente, la Regione Veneto ha insediato una commissione tecnica senza convocare i due veterinari che avevano scoperto i pesci al Pfas. Poi Domenico Mantoan, direttore generale della Sanità Veneta, aveva accentrato le ricerche. Intanto, dopo lo scoppio del caso Miteni nel 2014, erano cadute nel vuoto le richieste di Giovanna Frison e Giorgio Cester, a capo delle sezioni Sanità e Veterinaria della Regione Veneto, di ottenere una mappatura dei fanghi e così “il monitoraggio alimentare partì senza una conoscenza approfondita della contaminazione dei terreni”. È una ricostruzione imbarazzante che dimostra come “nel 2015, solo grazie al consigliere regionale dem Andrea Zanoni furono divulgati i referti relativi a 200 alimenti, creando scalpore, e il capo della sezione Veterinaria, Giorgio Cester, aveva dovuto addirittura discolparsi per averli forniti”.

UN BALLETTO DI CIFRE – Il quadro che ne viene fuori è di ricerche sugli alimenti lacunose, senza che fino al 2017 sia stato deciso di proibire la pesca. Erano passati quattro anni dalle prime analisi dei pesci nel Vicentino. Visto che la situazione alimenti non era sotto controllo sono stati avviati i monitoraggi, ma per ottenere i dati, le organizzazioni ambientaliste hanno dovuto ricorrere perfino al Tar. Nel 2018 Efsa ha modificato i limiti di tollerabilità, portando i valori di Pfoa accettabili a 8 nanogrammi per chilo (inferiori di 1.750 volte rispetto ai rilievi precedenti): “Così la maggior parte dei campioni del Veneto sono risultati superiori alla nuova soglia europea”. Negli alimenti ci sono i Pfas, ma nessuno mette divieti, né si cerca la provenienza del cibo contaminato. Nel 2020 Efsa dimezza addirittura i livelli, portandoli a una tollerabilità di 4 nanogrammi per chilo di peso corporeo a settimana. La conclusione sul Veneto è impietosa: “L’esposizione della popolazione generale ai Pfas avviene in massima parte per via alimentare, attraverso il consumo di alimenti e acqua. Gli alimenti vegetali possono venire contaminati dal terreno e dell’acqua utilizzati per coltivarli, quelli di origine animale dai Pfas concentratisi nell’organismo animale tramite l’acqua e/o i mangimi”. Negli ultimi tre anni la situazione non si è modificata. Basti pensare che il terzo campionamento sugli alimenti (ma solo su prodotti di origine animale) è stato approvato dall’assessore Manuela Lanzarin nel luglio 2022, con una spesa di 100mila euro (il Piemonte per un’analisi analoga ha stanziato 240mila euro). Ed è in ritardo di tre anni, visto che era stato promesso nel 2019, ma non se n’è fatto nulla.