Dal punto di vista strategico, esiste una perfetta continuità tra la conquista russa di Severodonetsk (e poco dopo di Lysichansk) e la rottura dell’assedio di Kharkiv e la liberazione di Izium, Lyman e Kherson, operate dagli ucraini: dal febbraio 2022 il generale Zaluzhny e il suo Stato Maggiore hanno semplicemente ripetuto lo stesso modello di difesa e contrattacco, a Hostomel e Chernihiv prima, a Severodonetsk poi, evitando di tenere “a tutti i costi” territori indifendibili ma anche guardandosi bene dal cedere a buon mercato posizioni molto ben difendibili. Questo è il caso di Bakhmut. La domanda che chiunque si pone di fronte alla battaglia che tiene impegnati i mercenari di Wagner, esercito russo e separatisti del Donbass contro le forze armate ucraine da esattamente sette mesi è “perché?”. La questione non è da poco: è il singolo scontro più duraturo della guerra. Ma soprattutto è il più sanguinoso: sembra che i morti delle due parti oscillino tra 30-40mila, di cui circa 10mila ucraini. Per fare un paragone, questa singola battaglia è costata in termini di vite umane il doppio delle perdite della guerra civile in Libia dal 2014 a oggi e quasi quanto l’invasione nazista della Grecia nel 1941.

È diventata così importante non per un motivo nato “sul terreno”, ma per quello che è successo poco più a nord tra settembre e ottobre, quando le truppe di Kiev recuperarono, con Izium e Lyman, i principali snodi ferroviari tra la Russia centrale e il Donbass. E proprio Izium era la preda più importante, anche se non pregiata come Kherson o Mariupol, tra le città conquistate dalle forze del Cremlino nei primi sei mesi di guerra: lo era perché, facendo da perno sul suo sistema ferroviario, da quel punto è possibile tenere sotto minaccia efficacemente sia Kharkiv sia il Donbass. È inutile dire che i russi, da quando esistono le strade ferrate, hanno optato di spostare uomini e mezzi su rotaie e solo così sanno muovere i “grandi numeri”. Persi i due “perni” di Izium e Lyman, hanno continuato a esercitare pressione dove si trovavano al momento della sventura, vale a dire nelle aree tra Svatovy e Kreminna a nord e attorno a Bakhmut a sud. La presenza di molti corsi d’acqua congelati e di strade coperte da lastre di ghiaccio, rimaste tali fino a tre o quattro giorni fa quando sono cominciate le piogge, li ha favoriti nell’eleggere soprattutto l’area attorno a Bakhmut (tra cui le ormai celebri Soledar, Krasna Hora ecc.) come principale obiettivo. La sua conquista è stata a lungo ritenuta dallo Stato Maggiore russo suscettibile di provocare il crollo del fronte e il ripiegamento delle forze ucraine oltre i confini dell’oblast di Donetsk.

Ma non è stato così, perché quando necessario gli ucraini si sono sempre ritirati in buon ordine (il loro generale, Zaluzhny, non è tipo che tiene obiettivi simbolici) e si sono prontamente messi al sicuro protetti da trincee ben costruite, impianti industriali e infrastrutture logistiche. Così, la parte orientale di Bakhmut, quella che i russi hanno via via rosicato al controllo ucraino, è stata difesa con sempre meno truppe, per non esporle al rischio dell’accerchiamento. D’altronde, negli ultimi giorni della battaglia di Severodonetsk, la stessa area era difesa da meno di mille uomini, a fronte di decine di migliaia impiegati in precedenza.

Zaluzhny è il solo generale in servizio al mondo ad avere nove anni ininterrotti di esperienza in guerra: come mai si è arrischiato nella cocciuta difesa di Bakhmut, a parte il fatto che la città era ben fortificata e non difficile da tenere? Il motivo è lo stesso, come detto all’inizio, che lo aveva spinto a combattere casa per casa a Mariupol, Hostomel, Severodonetsk e Chernihiv: tenere il grosso delle forze russe impegnato in un combattimento dal grande pregio simbolico (per il Cremlino) ma di scarso valore sia tattico sia strategico. E far consumare allo Stato Maggiore russo decine di migliaia di truppe, evidentemente ritenute spendibili.

La cosa si è spinta fino al punto in cui, a metà della primavera, davanti ai carnai di Mariupol e Severodonetsk, il generale Ben Hodges, ex comandante delle forze americane in Europa e grande conoscitore delle due parti in lotta, arrivò a sostenere che a settembre Mosca non avrebbe più avuto un esercito. Quello che è successo in autunno tra Kharkiv e Lyman, oltre alla mobilitazione parziale, gioca a sostegno della sua tesi. È presto, però, per dire che cosa accadrà: possiamo solo limitarci a sottolineare come la tanto attesa “grande offensiva” delle truppe russe non è ancora cominciata, anche perché decine di migliaia di regolari e riservisti sono ancora impegnati a cercare di conquistare questo comune di quaranta chilometri quadrati. Né sappiamo se le truppe russe e quelle ucraine riceveranno nei prossimi mesi in tempi celeri rifornimenti da Iran e Cina, dalla parte di Mosca, e dall’occidente, per Kiev: la ricostituzione dell’arsenale missilistico del Cremlino e l’arrivo di tank moderni per gli ucraini raccontano due storie che poco hanno a che vedere con questa sperduta località del Donbass. È probabile che i due contendenti nel breve periodo utilizzeranno sempre più, oltre alle solite artiglierie, quello che ha fatto capolino nelle ultime settimane: i russi i droni kamikaze, gli ucraini i sistemi missilistici di precisione arrivati da americani ed europei. Non importa il destino di questa sfortunata città, la guerra non si vince né si perde a Bakhmut: le principali roccaforti degli ucraini in questa regione sono a Kramatorsk e Sloviansk, poste a 35-40 chilometri dalla cittadina, una distanza da pendolare in tempo di pace ma assai lunga nell’economia della guerra in Ucraina se pensiamo che le truppe di Mosca hanno impiegato dieci mesi per arrivare dalla vicina Popasna fino a questa cittadina martoriata. E Popasna dista poco più di venti chilometri. Insomma, perché Bakhmut? Per lo stesso motivo di ciascuna delle dodici battaglie dell’Isonzo: perché entrambe le parti l’hanno ritenuta, a torto o a ragione, meritevole di essere combattuta.

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