Una partita di droga non pagata, ma soprattutto uno smacco alla famiglia mafiosa del paese e il prestigio da lavare col sangue. Sono queste secondo la Direzione distrettuale antimafia di Lecce alcune delle ragioni che hanno portato all’omicidio di Natale Naser Bahtijari, il 21enne leccese di origine montenegrina trovato morto nelle campagne di Manduria, nel tarantino, nella notte tra il 22 e il 23 febbraio scorso. Ucciso perché aveva osato sfidare la famiglia Stranieri, il clan mafioso che da generazioni comanda e impera nel territorio messapico. È quanto sostiene il pubblico ministero Milto De Nozza della Direzione distrettuale Antimafia di Lecce che ha firmato il fermo di indiziato di delitto nei confronti dei tre presunti autori dell’assassinio. Al termine dell’indagine lampo condotta dagli investigatori della Squadra mobile guidato dal vice questore Cosimo Romano, in carcere sono finiti tre giovanissimi manduriani: il 19enne Vincenzo Antonio D’Amicis, il 22enne Domenico D’Oria Palma e Simone Dinoi, anch’egli 22enne.

Tre giovanissimi cresciuti all’ombra criminale di Vincenzo Stranieri, boss incontrastato di Manduria e nonno di D’Amicis: sono stati loro a emettere la sentenza di morte nei confronti del 21enne, “colpevole” di aver preteso il pagamento per la fornitura di stupefacenti, non accettando la richiesta di dilazione avanzata dal gruppo. “Così la comunità manduriana e qualunque avventore del mondo criminale che avesse a che fare con la famiglia Stranieri avrebbe potuto ‘recepire’ un messaggio che doveva arrivare chiaro e forte: nessuno poteva e doveva osare ripetere il gesto di disobbedienza della vittima”. Il pm De Nozza lo scrive senza mezzi termini: la morte del 21enne è stata un’esecuzione mafiosa necessaria per offrire una dimostrazione plateale della forza del clan. Un omicidio ricostruito in ogni sua fase grazie alle intercettazioni raccolte dai poliziotti, che da tempo stava indagando sul gruppo di giovani manduriani.

Tutto è cominciato lo scorso 9 febbraio quando D’Amicis, insieme a un complice, si è recato a Lecce per ottenere un carico di cocaina da Suad Bahtijari, 29enne fratello della vittima, che si trovava ai domiciliari perché ritenuto dagli inquirenti un narcotrafficante: il gruppo di Manduria avrebbe dovuto pagare con calma quella partita di stupefacenti, ma il 22 febbraio i leccesi hanno preteso i soldi e per ottenerli hanno inviato Natale Naser Bahtijari. Doveva essere una missione semplice visto che il giovane si presenta nel comune messapico in compagnia di due amiche. Il 21enne la sera del 22 febbraio viene accolto da un giovane che lo guida fino al bar Bunker nel centro storico. È lì che secondo quanto ricostruito dai poliziotti il giovane viene accoltellato la prima volta e poi caricato sull’auto di Simone Dinoi. La vittima urla, ma nessuno si azzarda a dare l’allarme. Tutti, nel comune sciolto qualche anno per infiltrazioni mafiose, sanno chi è D’Amicis. Conoscono “Stellina”, come tutti chiamano il nonno Vincenzo Stranieri: è stato in carcere ininterrottamente dal 1984 al 2022 e dal 1992 in regime di 41 bis. E fa ancora paura evidentemente perché nessuno vede o sente nulla.

Il 21enne in auto soffre e implora, ma non serve a nulla: l’auto si ferma in un luogo appartato, il giovane viene trascinato fuori e colpito ancora. Le intercettazioni rendono la “rappresentazione minuziosa, chiara e feroce” della sua morte, scrive il pm De Nozza. “Io ti prendo e ti uccido per quello che hai fatto a mia madre” gli grida D’Amicis mentre lo pugnala e poi aggiunge: “Pezzo di merda… vieni che ti lascio lo sfregio a vita…tu della famiglia mia… ti scanno tutto infame”. Il silenzio, scrive il magistrato, è “squarciato dalle urla della vittima” e “amplifica e rende nitide le voci dei tre indagati e i colpi ferocemente inferti”. In quelle fasi tremende, secondo gli inquirenti, avviene qualcosa degno della sceneggiatura di “Gomorra”. Dinoi si accorge del tatuaggio sul braccio destro di D’Amicis: è un simbolo di famiglia e “a quel punto – si legge negli atti d’inchiesta – Dinoi bacia il tatuaggio”. Il corpo del povero 21enne viene lanciato nella scarpata dove sarà ritrovato la mattina seguente. Ma non basta. D’Amicis ordina ai complici di bruciarlo, ma i due non riescono a ritrovare il cadavere una volta tornati sul posto. Il nipote del boss, però, vuole uccidere anche le due amiche per evitare sorprese e solo a quel punto Dinoi e D’Oria Palma rifiutano: “Per uccidere lei no, se fosse lui si… quella no” dice uno dei due. Uno slancio di umanità in una storia che sembra un romanzo nero, in cui nessuno ha il coraggio di parlare.

“Nessuno ha visto o sentito nulla” ribadisce il pm nel decreto di fermo. E chi invece ha visto, dice bugie. Come il titolare del bar in cui il 21enne sarebbe stato accoltellato la prima volta: ascoltato dai poliziotti ha dichiarato esclusivamente di aver assistito a una lite tra due giovani, di averli invitato ad allontanarsi, ma di non averli riconosciuti. Dichiarazioni “non credibili” secondo l’accusa perché in realtà rispondono “alla condizione di assoggettamento e di profonda omertà” a cui è sottoposta una parte significativa della cittadinanza. Perché tutti sanno che Vincenzo Antonio D’Amicis non è solo il nipote di uno dei “vertici della mafia storica denominata “Sacra Corona Unita”, ovvero Stranieri Vincenzo”, ma in paese, è già considerato una “sua diretta derivazione anche in termini di agire criminale“. Proprio in quel bar i poliziotti hanno ritrovato una “rilevante quantità di sangue” nonostante il locale sia stato lavato prima dell’arrivo degli investigatori. Silenzi e bugie. Come per la vicenda di Antonio Stano, 66enne disabile torturato da una bay gang nel silenzio generale dell’intero paese. Poi lo scioglimento del Comune alcuni anni per infiltrazioni mafiose. E oggi, un episodio che sembra provenire più da una periferia dell’America Latina che dal centro del turistico Salento. Ancora oggi, a distanza di anni, l’omertà è un valore in alcuni territori del sud. A Manduria, il cognome Stranieri, chiaramente, fa ancora paura. Vincenzo Stranieri, detto “stellina” per il tatuaggio al centro della fronte, è il mafioso italiano che ha trascorso più tempo di chiunque in regime di 41 bis: associazione mafiosa, sequestro di persona, ma nessun omicidio. È stato arrestato per la prima volta nel 1984 ed è rimasto dietro le sbarre ininterrottamente per 38 anni, fino al 2022. Nel 1992, dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio, il numero 2 della Sacra Corona Unita fondata dal mesagnese Pino Rogoli, viene sottoposto al regime di carcere duro: al 41 bis resta per ben 28 anni. Da un anno era libero, ma ora su di lui sono nuovamente accesi i fari della magistratura.

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