“Dobbiamo decidere a quale modello di riferimento devono ispirarsi i nostri amministratori. Se il parametro è quello del consenso elettorale e delle buone relazioni con gli imprenditori del territorio allora vanno assolti tutti in questo processo. Ma se il modello di riferimento è quello della responsabilità, della sicurezza e del benessere di un’intera comunità avendo il dovere di prevedere ogni forma minima di rischio come per altro ricorda la nostra Costituzione allora in nome di essa spero che venga espressa una sentenza esemplare“. E’ un passaggio dell’ultimo intervento, in sede di replica, del procuratore di Pescara Giuseppe Bellelli nel processo per la tragedia di Rigopiano, nella quale sono morte 29 persone per effetto di una valanga che travolse un resort il 18 gennaio 2017, poco più di sei anni fa. Bellelli in aula ha parlato dei ruoli e delle responsabilità degli amministratori territoriali. Sono intervenuti anche i due pm che hanno coordinato l’inchiesta: il sostituto Andrea Papalia ha puntualizzato alcuni aspetti relativi al depistaggio (come la negazione di telefonate con richieste di aiuto e brogliacci di chiamate), mentre la collega Anna Benigni ha rimarcato la sottovalutazione del rischio e l’omissione grave dei mancati interventi degli enti locali competenti per la strada che conduceva verso il resort, concentrandosi in particolare sulle responsabilità del sindaco di Farindola Ilario Lacchetta accusandolo di essersi più preoccupato degli allevatori di pecore che degli ospiti dell’albergo. Mercoledì prossimo è prevista la sentenza, mentre domani – giovedì – è prevista l’ultima udienza per le controrepliche dopo le conclusioni delle parti. “Molte delle parole delle difese degli imputati – dice l’avvocato di parte civile Romolo Reboa – dicono che ognuno doveva fare qualcosa a qualche altro, in realtà se tutti avessero fatto qualcosa non ci sarebbero stati 29 morti”.

La valanga del 18 gennaio 2017 travolse e fece crollare l’hotel Rigopiano, nella località che porta lo stesso nome e si trova a 1200 metri sul Gran Sasso. Undici furono i superstiti. Secondo l’accusa, i principali responsabili sono il Comune di Farindola e la Provincia di Pescara, e si aggiunge il comportamento della Prefettura e le mancanze amministrative gravi della Regione Abruzzo. La pena più alta, 12 anni, è stata chiesta per l’ex prefetto di Pescara Francesco Provolo, mentre 11 anni e 4 mesi sono stati chiesti per il sindaco di Farindola Lacchetta e 6 per l’ex presidente della Provincia di Pescara Antonio Di Marco. L’inchiesta si è concentrata sulle responsabilità dei dirigenti comunali e provinciali nella gestione dell’emergenza e della viabilità sconvolta per il grave maltempo di quei giorni e sui permessi urbanistici: l’hotel era stato realizzato in una zona notoriamente esposta a valanghe e di conseguenza avrebbe dovuto essere chiuso e la strada sgomberata. E’ stata scandagliata anche l’attività della Regione Abruzzo per la mancata realizzazione e approvazione della Carta Valanghe: pesanti le richieste per i dirigenti regionali in quello che è stato definito “un collasso di sistema“, anzi “un fallimento dell’intero sistema”. Insufficiente, secondo la ricostruzione dei pm, il comportamento della prefettura per la mancata tempestività ed efficacia nell’emergenza, tanto che è proprio per l’ex prefetto Provolo la richiesta della condanna più severa, appesantita dal filone del cosiddetto depistaggio, che in aula, in un’udienza dei mesi scorsi, il capo della Procura Bellelli aveva liquidato sottolineando che “non ci sono grandi misteri oggi da svelare”. “C’era – ha proseguito Bellelli – l’inefficienza grave della prefettura, non ci sono grandi depistaggi italiani: non c’è un anarchico che cade dal balcone della Questura, non ci sono tracce scomparse dal cielo di Ustica, non c’è una agenda rossa trafugata. Parliamo di un prefetto di provincia che lascia cadere nel vuoto una richiesta di aiuto“. Secondo la Procura, ci sono insomma tante responsabilità diffuse: quelle dei dirigenti comunali, provinciali e regionali, per la viabilità e la carta valanghe, per i permessi, per gli ex sindaci di Farindola, per i tecnici che non certificarono il vero e anche per la società proprietaria di Rigopiano. Per il gestore Bruno Di Tommaso, infatti, la richiesta è stata di 7 anni e 8 mesi. Sono state messe a nudo tutte le mancanze su prevenzione e previsione del rischio valanghe, i comportamenti omissivi in riferimento a reati come disastro e omicidio colposo, lesioni, falso, molti legati alle responsabilità di Protezione Civile. Pene più basse, per i dirigenti minori della Prefettura, sono state chieste per il “depistaggio”.

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