Due condanne per omicidio (una definitiva) e nel curriculum un’evasione e una sfilza di altri reati. Massimiliano Sestito, 52 anni, affiliato alla ‘ndrangheta, però era ai domiciliari in attesa dell’udienza della Cassazione, il prossimo 3 febbraio, perché imputato per l’assassinio di un boss. Dopo aver manomesso il braccialetto elettronico il pregiudicato, a cui in passato è stato contestato anche il traffico di droga, è riuscito a evadere lo scorso 30 gennaio dalla casa a Pero, nel Milanese, dove era ospitato dal padre. Sestito ha scontato la condanna per l’assassinio di un appuntato dei carabinieri nell’agosto del 1991, Renato Lio. L’altra condanna per omicidio non definitiva riguarda l’omicidio di un boss, Vincenzo Femia, ucciso nel 2013 a Roma. Nel 2021, per quel delitto, Sestito era stato condannato all’ergastolo nel processo di appello ter, dopo due rinvii della Cassazione. E un nuovo ricorso deve essere discusso davanti alla Suprema corte fra due giorni L’imputato era stato quindi scarcerato da Terni il 12 gennaio scorso e sottoposto ai domiciliari dalla Corte d’assise d’appello di Roma a casa del padre in attesa della pronuncia degli ermellini. I giudici avevano accolto un’istanza della difesa, all’uomo erano stati concessi i domiciliari nel giugno scorso, ma aveva lasciato il carcere di Terni, dove era detenuto, solo due settimane fa, quando era arrivata la disponibilità del braccialetto elettronico.

Non era la prima evasione per Sestito che era già scappato nell’agosto del 2013, mentre si trovava in regime di semilibertà concessa dal carcere romano di Rebibbia, ed era stato poi riarrestato mentre si trovava in ‘vacanza’ al mare nel Salernitano. L’uomo è considerato un esponente della cosca Iezzo Chiefari Procopio, anche se dopo l’omicidio dell’appuntato dei Carabinieri era stato ‘redarguito’ per quell’assassinio, avvenuto a un posto di blocco a Soverato il 20 agosto 1991, che avrebbe portato troppo scompiglio nel territorio. Sestito sparò tre colpi a bruciapelo all’appuntato, Renato Lio, mentre il collega che controllava i documenti stava per perquisire l’auto sulla quale si trovava in compagnia di altri, giudicati poi estranei al fatto. Latitante per circa un anno era poi stato arrestato e condannato all’ergastolo in primo grado nel 1993, pena poi ridotta a trent’anni, lo stesso anno, in appello.

Il boss Vincenzo Femia, di 76 anni, calabrese della cosca di San Luca, residente a Roma dove veniva considerato un esponente di spicco della malavita, venne invece ucciso in auto, con nove colpi sull’Ardeatina, nella capitale. Un omicidio che si ritenne maturato in uno scontro tra ‘ndrine, con un conflitto per l’egemonia sul traffico di cocaina che per la prima volta si era spostato dalla Calabria a Roma. Era il 24 gennaio 2013. Per questo delitto non c’è la condanna definitiva. “Con questa notizia della fuga di Massimiliano Sestito si riapre una ferita mai rimarginata – dice a LaPresse Carlo Lio, cugino di Renato Lio, il carabiniere ucciso nel 1991 – È stata una notizia molto dolorosa per me, ma soprattutto per i figli, anche se sono passati molti anni dalla scomparsa di Renato. Loro erano piccoli e sono cresciuti senza un padre. Non voglio essere polemico – precisa – ma spesso non vanno ai domiciliari altri malviventi e invece li si danno a un mafioso conclamato?“.

“Anziché piangere sul latte versato, interroghiamoci sul perché un criminale come Massimiliano Sestito, reo di aver ucciso anche un carabiniere nel 1991, si trovasse con un semplice braccialetto elettronico agli arresti domiciliari – scrive in una nota Domenico Pianese, segretario generale del sindacato di Polizia Coisp – Episodi di questo tipo generano un forte sentimento di insicurezza nei cittadini e relegano lo Stato in un vero e proprio cono d’ombra, quasi fosse incapace di salvaguardare perfino la memoria di tutti coloro che hanno dato la propria vita per difenderlo. La cosa che più di altre ci amareggia – aggiunge – è che chi sostiene lo Stato di diritto, troppo spesso ha più a cuore i diritti dei carnefici anziché quelli delle vittime: nel nostro Paese, infatti, assistiamo a paradossali dibattiti sulla difesa dei principi costituzionali in difesa di chi commette reati efferati, ma raramente ascoltiamo affermare i diritti costituzionali di chi ha perso la vita“.

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