Maria (nome di fantasia) ha vissuto e dormito per le strade di una città del Nord Italia per 15 anni. Suo figlio è morto per overdose e lei non ha visto l’ex marito violento da diverso tempo. L’abuso di alcol l’ha portata più di 200 volte in fin di vita al pronto soccorso e gli operatori sociali non sapevano come aiutarla. Nel 2015 però, superando lo scetticismo, è entrata in un programma di housing first, che prevede l’assegnazione di una casa per un periodo di minimo di 24 mesi. “La sua qualità di vita e di interazione è notevolmente migliorata. È riuscita anche a passare lunghi momenti senza bere e a gestire, nonostante alcune ricadute, le sue patologie, con un notevole risparmio sulle ospedalizzazioni anche per la sanità pubblica”. La storia di Maria è una delle tante che può raccontare Giuseppe Dardes, coordinatore di Housing First Italia. Si tratta di una community, attiva dal 2014 tra Milano, Bologna, Torino, Roma e altre cinque regioni, che sta aiutando circa 1000 persone senza fissa dimora a ricostruire la loro quotidianità. In Italia si sta cercando di dare impulso a iniziative simili con i 450 milioni di euro stanziati dal Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza). “Molti ci si stanno buttando a pesce, ma la situazione è complicata – afferma Dardes – Si stanno diffondendo molti progetti di housing temporaneo, cioè dove l’assegnazione della casa è prevista per periodi brevi come sei mesi. Le nuove organizzazioni stanno accogliendo tra le 1000 e le 1500 persone, ma molte non hanno la formazione necessaria che richiede la gestione dei rapporti con gli ospiti”.

Secondo un censimento realizzato dall’Istat nel 2014, sono 50.724 le persone che vivono in strada in Italia. L’indagine però conta solo chi ha usufruito di servizi come mensa o dormitori notturni nei 158 comuni analizzati. Il modello dell’housing first è ancora poco diffuso, ma sta innovando i modelli di assistenza tradizionali: “Permette un’uscita veloce e più duratura dalla condizione di homeless – spiega Dardes – I dati del contesto internazionale ci dicono che l’82% delle persone che ne usufruiscono riesce a tenere una casa almeno per due anni, con un minore rischio di cronicizzare il problema”. I risultati sono positivi dagli Stati Uniti, primi ad avviare progetti di questo tipo, alla Danimarca, al Portogallo, fino all’Australia. Particolarmente virtuoso è il modello della Finlandia: grazie alle iniziative attive dal 2008, è l’unico Paese in Europa dove il numero delle persone senza fissa dimora è in calo. Oggi sono meno di 4mila dai 20mila degli Anni Ottanta. In Italia sono attualmente 57 le organizzazioni pubbliche e del privato sociale che hanno aderito al network Housing First, molte dopo la pandemia di Covid 19. Le prime sperimentazioni, finanziate per il 35% dai Comuni e per il 67% da Enti e fondazioni private, si sono trasformate in progetti stabili in 29 città e 9 regioni italiane. “Piano piano stiamo riuscendo a reinserire nella comunità le persone che accogliamo – spiega il coordinatore della community italiana – Sempre in una città del nord Italia, abbiamo accolto una ragazza che proveniva dall’Est Europa e aveva subito abusi in famiglia. L’avevano attirata lì con la promessa di un lavoro, ma era finita in una tratta – racconta Dardes – Spesso aveva scontri con l’assistente sociale che la seguiva, perché chiedeva soldi. Provocava anche danni all’ufficio o commetteva atti di autolesionismo. Da quando l’abbiamo messa in casa la sua salute è migliorata, sia dal punto di vista fisico che mentale e riesce ad avere dei buoni periodi e delle interazioni normali con i vicini. Il suo però non è l’unico caso: tanti giovani che ospitiamo durante il lockdown hanno fatto la spesa per i vicini anziani”.

I beneficiari dell’housing first vengono infatti inseriti in appartamenti in normali condomini ordinari, “con canoni di locazione tra i 600 e i 1000 euro, dipende dalle città”. Lì sono accompagnati da operatori formati in percorsi di recupero sociale e reinserimento lavorativo: “Uno dei patti è infatti che partecipino ai costi dei progetti. Per esempio, se percepiscono il reddito di cittadinanza, finanziano una parte dell’affitto o del supporto educativo – afferma Dardes – Noi però non possiamo imporre loro regole o vincolare la loro permanenza in casa a condizioni, come la disintossicazione dalle sostanze stupefacenti e dall’alcol, devono essere loro a darle e noi dobbiamo comportarci come ospiti. Altrimenti c’è una relazione asimmetrica e non si insatura un rapporto di fiducia”. Questo è un aspetto sul quale c’è il rischio che molti dei progetti, nati grazie ai fondi del Pnrr, falliscano, a causa di una formazione non adeguata. “Noi ci confrontiamo con Housing First Europa – una community più grande che raccoglie diversi Stati del continente –, condividiamo le buone pratiche e facciamo supervisione – dice Giuseppe Dardes – Uno degli obiettivi che ci siamo dati quest’anno è metterci in comunicazione con le organizzazioni che non aderiscono alla nostra rete, in modo da assicurarci che non mettano l’etichetta housing first su iniziative che non ne rispecchino i principi”. Il governo, però, secondo il coordinatore del network italiano, ha deciso di “non scommettere fino in fondo sul modello”: i fondi europei saranno destinati, si legge nei documenti ufficiali, a progetti di housing temporaneo. “L’obiettivo dovrebbe essere dare l’impulso a delle iniziative che poi diventino stabili in futuro – dice – Accogliere in casa delle persone per sei mesi però è radicalmente diverso da farlo per almeno due anni o di più. Molti potrebbero approfittare dei finanziamenti per ristrutturare degli immobili. Bisogna prestare attenzione”.

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