Per combattere la crisi climatica, bisogna salvare le balene. Lo afferma uno studio, pubblicato sulla rivista Trends in Ecology and Evolution. Tramite la loro dieta a base di krill e plancton fotosintetico, questi cetacei sono in grado di immagazzinare l’anidride carbonica, riducendone quindi la quantità presente nell’oceano e in atmosfera a causa delle attività umane. Addirittura, secondo gli scienziati, il loro ruolo potrebbe essere importante come quello delle foreste. Per avere un termine di paragone, ogni anno un albero assorbe poco meno di 106 kg di CO2, dice un rapporto del Fondo monetario internazionale del 2019. Una balena invece riesce a catturarne fino a 33 tonnellate.

L’oceano è il serbatoio di anidride carbonica più esteso del mondo: ha immagazzinato circa il 40% di tutta quella emessa, a causa dei combustibili fossili, dai tempi della prima rivoluzione industriale e circa il 22% di quella prodotta nell’ultimo decennio. Recentemente i biologi marini hanno scoperto che anche le balene hanno un ruolo in questo ciclo. Grazie al loro peso, che può raggiungere 28 tonnellate, e alla loro longevità – molte vivono oltre i 100 anni -, riescono ad accumulare molta più CO2 rispetto agli animali più piccoli. Quando muoiono, affondano nell’oceano e la eliminano dall’atmosfera per secoli. Il meccanismo è semplice, spiegano i ricercatori. Questi cetacei “consumano ogni giorno fino al 4% del loro massiccio peso corporeo in krill e plancton. Per la balenottera azzurra, questo equivale a quasi 18mila chilogrammi – afferma lo studio – Quando finiscono di digerire il cibo, gli escrementi espulsi sono ricchi di importanti sostanze nutritive che aiutano questi krill e plancton a prosperare, favorendo l’aumento della fotosintesi e l’accumulo di carbonio dall’atmosfera”.

La popolazione di questo animale negli ultimi anni però è drasticamente diminuita. La caccia commerciale ne ha sterminato l’81%. Anche dopo il divieto, sono ancora molti gli esemplari che muoiono, colpiti dalle navi, impigliati nelle reti dei pescatori o disorientati, denunciano gli attivisti, dagli impianti di energia eolica offshore. Spesso mentre si spostano verso nuovi habitat, a causa del surriscaldamento delle acque causato dalla crisi climatica. Le balene rientrano inoltre tra i mammiferi marini più esposti al rischio di estinzione: della specie franca del Nord Atlantico rimangono, per esempio, solo 340 esemplari. Un “relativamente piccolo” considerando la portata della sfida climatica globale, “ma anche relativamente grandi rispetto alle promesse che alcune nazioni fanno sulla riduzione delle emissioni di CO2”, dicono i ricercatori.

Secondo il Fondo monetario internazionale, riportare le popolazioni ai livelli pre-caccia, vale a dire dagli 1,3 milioni di animali contati nel 2019 a 4 o 5 milioni, aiuterebbe ad assorbire maggiori quantità di CO2, con grandi benefici su diversi ecosistemi. Una teoria confermata anche dall’ultimo studio. “Il recupero delle balene potrebbe provocare un miglioramento autosostenibile a lungo termine del pozzo di carbonio che è l’oceano – scrivono gli autori – Il pieno ruolo di riduzione dell’anidride carbonica delle grandi balene (e di altri organismi) sarà realizzato solo attraverso solidi interventi di conservazione e gestione che promuovano direttamente l’aumento della popolazione”. Addirittura in certe specie, la quantità di CO2 immagazzinata aumenta di uno o due ordini di grandezza” con la crescita del numero di questi straordinari cetacei, ha affermato Stephen Wing, tra gli autori dell’articolo e professore di Scienze marine presso l’Università di Otago in Nuova Zelanda. In generale, per gli scienziati, il contributo di una singola balenottera azzurra alle strategie di mitigazione della crisi climatica potrebbe valere, per gli Stati, un risparmio di circa 1,4 milioni di dollari. Le stime però sono al ribasso perché “si basano su ipotesi al di là della nostra comprensione dell’ecologia delle balene e dell’oceanografia biologica”.

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