Sulla biodiversità i Paesi delle Nazioni Unite arrivano a un documento con luci e ombre. La quindicesima conferenza della Convenzione per la Biodiversità (Cbd), la Cop15 presieduta dalla Cina ma svoltasi con due anni di ritardo (causa Covid) a Montreal, in Canada, si chiude con l’accordo di rendere area protetta il 30% delle terre e delle acque al 2030 (ad oggi sono protetti il 17% delle terre e l’8% dei mari). Un obiettivo da raggiungere rispettando le comunità indigene e il loro ruolo. Si prevede, poi, di stanziare 30 miliardi di dollari all’anno per aiutare i paesi in via di sviluppo nella tutela della natura e di risanare il 30% degli ecosistemi degradati, dimezzando il rischio legato ai pesticidi. Insomma il cosiddetto obiettivo 30X30. Si punta anche a una riforma dei sussidi dannosi per l’ambiente che potrebbe fornire altri 500 miliardi di dollari. Molti lo definiscono ‘accordo storico’, anche perché dietro le quinte c’era chi temeva non si arrivasse neppure a questi target, ma dietro quel testo (l’accordo Montreal-Kunming non è legalmente vincolante, ndr) c’è un gap tra le risorse economiche effettivamente necessarie e ciò che viene messo nel piatto e c’è un patto raggiunto solo a metà. Come nel più classico dei déjà vu, infatti, durante il vertice si è assistito alla spaccatura tra Paesi poveri e ricchi (anche nella plenaria straordinaria iniziata domenica sera e durata più di sette ore). Proprio come accade alle Cop sul clima, soprattutto per quel che riguarda la finanza e le risorse che i secondi devono fornire ai primi per proteggere la biodiversità delle loro terre e acque.

La spaccatura per i finanziamenti – Alcuni paesi di Africa, Asia e Sud America chiedevano la creazione di un nuovo fondo per la biodiversità, proprio sulla scia di quanto è avvenuto di recente alla Cop 27 di Sharm El-Sheik. Un fondo che fosse separato dal principale meccanismo di finanziamento della biodiversità delle Nazioni Unite, ossia la Global environment facility (Gef), i cui maggiori destinatari sono Cina, Brasile, Indonesia, India e Messico, alcuni tra i Paesi che ospitano le più grandi foreste pluviali al mondo. L’accordo, invece, si è limitato a 25 miliardi di dollari all’anno per i Paesi in via di sviluppo entro il 2025 e 30 miliardi all’anno al 2030, anche se non è chiaro in che modo a chi e in che modo arriveranno. Tutte risorse, però, interne al Gef, per cui si prevede di raccogliere 200 miliardi l’anno entro il 2030. La tensione ha caratterizzato le ultime ore del vertice, ma l’opposizione delle nazioni africane, soprattutto della Repubblica democratica del Congo non ha fermato la Cina. Così, tra proteste e applausi, il ministro dell’Ambiente cinese e presidente della Cop 15, Huang Runqiu, ha annunciato che l’accordo era concluso.

“Una tabella di marcia”, allo stesso ritmo (lento) di quella del clima – Il vertice aveva lo scopo di concludere i lavori negoziali e definire il Post-2020 Global Biodiversity Framework sulla biodiversità. Positiva la protezione della biodiversità dato che nessuno dei 20 target fissati a Aichi nel 2010 è stato raggiunto e l’allarme lanciato dall’Ipbes (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services), il panel degli scienziati delle Nazioni Unite, secondo cui – entro i prossimi decenni – potremo dover dire addio a circa un milione di specie, tra varietà di piante, mammiferi come i lemuri o la tigre del Bengala, insetti, rane, uccelli, serpenti e salmoni, squali, leoni marini e altri animali acquatici. Ma l’accordo Montreal-Kunming non è legalmente vincolante. I governi dovranno mostrare i loro progressi nel raggiungimento degli obiettivi con piani nazionali sulla biodiversità, con una procedura simile a quella utilizzata per i Contributi determinati a livello nazionale (Ndc), anche quelli non vincolanti, che evidenziano le azioni per il cambiamento climatico e i progressi raggiunti. Dunque una procedura che rischia di dare troppi margini di manovra ai singoli Stati, esattamente come è avvenuto per il clima. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha parlato di “risultato storico”. “Questo accordo – ha detto – fornisce una buona base per un’azione globale sulla biodiversità, integrando l’accordo di Parigi per il clima. La comunità globale ha ora una tabella di marcia per proteggere e ripristinare la natura”.

Un deficit da 700 miliardi di dollari – Secondo An Lambrechts, capo della delegazione di Greenpeace alla COP15, la Conferenza “non è riuscita a fornire l’ambizione, gli strumenti o i finanziamenti necessari per fermare l’estinzione di massa”. È vero che si è raggiunto l’obiettivo 30×30, ma questo target “rischia di rimanere un numero vuoto”, dato che restano ancora diversi nodi da sciogliere, ad esempio, l’esclusione delle “attività dannose dalle aree protette”. “Come spesso accade, anche dietro questo accordo ci sono luci e ombre” ha spiegato a ilfattoquotidiano.it Federica Ferrario, responsabile della Campagna Agricoltura e Progetti speciali di Greenpeace Italia, secondo cui “è importante capire come questi obiettivi verranno tradotti nella pratica, anche in Italia, per esempio attraverso il Piano nazionale di ripresa e resilienza e la gestione delle risorse forestali”. “Va detto che 25-30 miliardi all’anno non possono bastare, anche se sono un passo avanti” aggiunge Ferrario. Ancora di più perché, come sottolinea An Lambrechts “c’è un deficit di finanziamento della biodiversità di 700 miliardi di dollari e non è chiaro da dove verrà il resto del denaro. La finanza non è solo una questione di quanto, ma anche di quanto velocemente”. Critica anche la posizione del Wwf: “Troppe azioni necessarie per rendere l’accordo trasformativo, sono state lasciate alla discrezione dei singoli Paesi. Se non verranno adottate a livello nazionale politiche per la riduzione dell’impronta ecologica di produzione e consumo – spiega l’associazione – i target dell’accordo non saranno sufficienti a raggiungere l’obiettivo lodevole di arrestare ed invertire la perdita di biodiversità entro il 2030”. Il rischio è che l’accordo resti “un guscio vuoto di promesse”.

Il ruolo delle comunità indigene – Allo stesso tempo, però, si sottolinea il ruolo riconosciuto alle comunità indigene, menzionate una ventina di volte nel documento finale. Perché se da un lato si vogliono estendere le superfici protette, bisogna anche capire cosa si potrà o non potrà fare (per esempio nei confronti delle comunità indigene) per raggiungere l’obiettivo del 30%. Un aspetto più volte raccontato anche da diverse ong, come Survival International. Nel documento finale, i popoli indigeni sono menzionati una ventina di volte nel documento finale. La finanza diretta per le popolazioni indigene – aggiunge An Lambrechts – è un passo successivo fondamentale”.

Twitter: @luisianagaita

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