Il 20 novembre 1945 si aprì a Norimberga il primo di vari processi in cui furono giudicati i crimini commessi dai gerarchi nazisti durante la seconda guerra mondiale e l’abominio della Shoah. La decisione di celebrare i processi fu presa da Stati Uniti, Gran Bretagna e Russia. Il Palazzo di Giustizia della città che fu la culla del partito nazista e del Terzo Reich per l’occasione fu ristrutturato per ampliare la copertura mediatica, sia con un’area per il pubblico sia con una sala stampa e furono aggiunte strumentazioni per la traduzione simultanea per accogliere corrispondenti provenienti da 23 diversi Paesi per un totale di 325 tra giornali, radio e agenzie di stampa.

I processi di Norimberga resero pubblici per la prima volta migliaia di documenti che testimoniavano l’efferatezza dei crimini del nazismo, nonostante molto fosse andato distrutto tra bombardamenti e deliberate iniziative di occultamento decisi dal regime di Adolf Hitler. Furono mostrati non solo i documenti cartacei, ma anche le immagini riprese e realizzate dagli stessi fotografi e cineoperatori della Germania nazista. Il processo di Norimberga, insieme ai processi di Tokyo, fu un momento importante di assunzione di responsabilità e presa di distanza dai crimini compiuti dai regimi dittatoriali. Fu un momento simbolico e cruciale per i coevi ma anche – si immaginava – per i posteri, grazie al grande lavoro di raccolta e accessibilità documentaria. In Italia non è avvenuto mai niente del genere. Come mai? Ilfattoquotidiano.it ne ha parlato con lo storico Eric Gobetti.

Gobetti, cosa ci dice questa assenza del rapporto tra passato e presente in Italia?
È di per sé un’anomalia il fatto che in Italia, a differenza della Germania e del Giappone, non ci sia stato alcun processo sui crimini di guerra e del regime. Questo vuoto ci parla di un diverso approccio al passato, soprattutto se pensiamo alla simbologia di un passaggio del genere. Infatti, l’importanza del processo di Norimberga non deve essere tanto considerata in rapporto alla condanna in sé, all’individuazione di quali e quanti responsabili. La rilevanza del processo sta, piuttosto, nel suo effetto psicosociale e nel valore politico di una simile presa di coscienza rispetto al proprio passato più e meno recente. In Italia, di fatto, si è spesso assai inconsapevoli rispetto alla complessità delle proprie genealogie storiche.

Che effetti ha avuto questa mancanza nella costruzione dell’identità nazionale?
Il mancato radicamento del passaggio dal regime fascista alla Repubblica a un momento simbolico e apertamente in opposizione rispetto al regime stesso, ha reso ancor più semplice la strada per diverse forme di continuità politica – ma anche istituzionale – del fascismo. Molte leggi fasciste sono rimaste a lungo in vigore, molto del personale fascista si è “reinventato” nelle istituzioni repubblicane. Inoltre, e con effetti di lunghissima durata, la non condanna dei tanti crimini compiuti dai fascisti ha generato oblio e convinzione di innocenza. In Italia, nei libri di scuola, non si parla mai dei campi di concentramento fascisti, ad esempio. Non si sa niente delle stragi, come quella di Podhun, vicino Fiume. Tutto questo ha rafforzato quell’idea di “Italiani brava gente” che fa parte dell’identità nazionale, dell’idea comune diffusa, deresponsabilizzata interamente rispetto al proprio passato. Questo vale per i crimini fascisti ma anche per molto altro, tra cui il passato coloniale. Un altro mito è quello delle leggi razziali emanate da Mussolini come “risposta italiana” a quelle naziste. In realtà queste leggi furono frutto di un percorso di legislazione suprematista bianca nelle colonie italiane.

Come si ripercuotono queste dinamiche nel discorso politico attuale?
La mancata assunzione di responsabilità ha facilmente portato alla banalizzazione del passato e delle sue eredità e questo è evidente, specialmente nel discorso politico delle destre. Al contempo, se pensiamo a un percorso di ricostruzione della memoria storica, è altrettanto importante mantenerne la complessità e non appiattire fenomeni come l’Olocausto sul paradigma della vittima. In questa epoca è molto diffusa la tendenza di guardare al passato alla luce del vittimismo piuttosto che degli ideali politici che hanno portato a conflitti aperti. Per decenni ci si è riferiti alla seconda guerra mondiale celebrano i rispettivi “martiri” e gli ideali per cui combatterono, inserendo in questo ragionamento la lettura della violenza. A oggi, invece, si tende a prendere come riferimento gruppi o persone presentate esclusivamente come vittime, senza fare alcun discorso sulla cornice storica in cui i conflitti sono esplosi e sulle idee e le progettualità politiche che si contrapponevano. È un passaggio senz’altro più facile, fuori dalla storia e facile all’uso politico strumentale, in un’epoca in cui l’ideale politico collettivo è stato largamente soppiantato dall’individualismo e il consenso viene costruito spesso dietro la maschera del vittimismo che, va da sé, in quanto vittima non ha mai responsabilità.

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Nella foto in alto | I gerarchi nazisti alla sbarra del primo processo di Norimberga.
In prima fila, da sinistra: il vicecancelliere Hermann Göring, il numero 3 del partito nazista Rudolf Hess, il ministro degli Esteri Joachim von Ribbentrop e il capo delle forze armate Wilhelm Keitel. In seconda fila, da sinistra: il comandante in capo della Marina Karl Dönitz, il capo del comando navale Erich Raeder, il luogotenente del Reich a Vienna Baldur von Schirach e il “plenipotenziario per la distribuzione del lavoro” Fritz Sauckel.
L’immagine è stata scattata da un fotografo dell’esercito degli Stati Uniti.

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