Italia, Stati Uniti, Israele, Francia: Agnese Peruzzi, 38 anni, è nata a Pescara ma appena maggiorenne è partita e non è più tornata. Obiettivo: diventare ingegnere biomedico. Dopo un lungo periodo nell’Università italiana, oggi lavora come project manager in un’azienda di ricerca clinica a Lione e con il suo compagno, italiano, ha appena avuto un figlio.

La prima tesi è sulla mobilità degli arti nei bambini in cura all’Ospedale Bambin Gesù di Roma: “Avevo lavorato per mesi a uno studio sul reaching e grasping, cioè sul raggiungimento e presa degli oggetti, nella disabilità – racconta Peruzzi a ilfattoquotidiano.it – e nonostante la realtà fosse difficile, dominata da bambini con problemi motori, ero stata benissimo”. Dopo il primo lavoro in una fondazione, per cui contribuisce a realizzare una cucina a misura di ipovedenti e ciechi, cerca un bando di dottorato sull’analisi del movimento. Lo vince all’Università di Bologna, una borsa co-finanziata dall’Università di Sassari. Peruzzi fa la spola tra le due città e nel 2010 si trasferisce ad Alghero. Il suo progetto è sulla riabilitazione di pazienti con sclerosi multipla e nasce in accordo con Tel Aviv. Allora trascorre cinque mesi nella capitale israeliana, “una città bellissima – dice – piena di energia”, poi torna a Bologna e chiude il dottorato.

Continua con assegni postdoc in Sardegna per quasi quattro anni, ma mentre investe tutta se stessa nei progetti, emergono i limiti della ricerca pubblica: “Ero contenta in quegli anni – ricorda – riuscivo a lavorare anche il weekend perché ci credevo tanto. All’epoca pensavo che l’unica ricerca possibile fosse quella pubblica, libera dalla logica del profitto”. Le sue condizioni professionali nel breve termine sono buone, nel dipartimento si è integrata e in Sardegna ha anche trovato l’amore, ma con il tempo diventa frustrante vivere nel settore accademico. “Quando vedi – dice – che tutto il tuo lavoro resta dov’è, e attrezzature costose rimangono inutilizzate, capisci che c’è un problema e devi cambiare paradigma”. A mancare, nel suo caso, non erano i fondi ma la possibilità di crescita. “La ricerca – spiega – rimaneva sempre a un livello accademico senza essere veramente integrata nella routine clinica, nonostante i protocolli fossero validati ed efficaci. Mancava – aggiunge – l’anello di congiunzione con la pratica clinica”. Così, ricevuta una proposta da San Francisco, accetta. “Partire – spiega Peruzzi – era l’ultima cosa che volevo. In Sardegna ero fidanzata con il mio attuale compagno e stavamo bene. Sono andata via contro il volere mio e anche dei miei colleghi, lo abbiamo fatto per una questione di prospettiva”.

Il piano di riforme previsto dal Pnrr potrebbe rilanciare la ricerca italiana, stabilizzando chi ha alle spalle anni di precariato. Ma ai tempi di Agnese, nel 2016, l’orizzonte per gli assegnisti non era roseo e il tessuto imprenditoriale sardo non offre grandi piani B. “Sapevo – spiega – che all’Università sarei stata presto ricercatrice di tipo A, ma poi avrei dovuto capire come diventare di tipo B. Per me il lavoro è sempre stato importante, quindi con il mio compagno ci siamo detti: proviamo”. A San Francisco Agnese fa ricerca in azienda. “Un’esperienza professionale bellissima, ma negli Usa mi sentivo un’extraterrestre. Ero già stata a Boston nel postdoc – dice – e la vita negli Usa non faceva per me”.

Dopo un anno, torna in Europa. Fa colloqui a Vienna, a Porto, poi sceglie la Francia, dove vive da cinque anni. Entra all’ospedale di Lione ma non si trova bene. Nel 2019 viene assunta in una grande azienda dove tuttora lavora. Il compagno, con un posto sicuro in una multinazionale in Sardegna, la raggiunge facendo un grande salto nel vuoto: “Si è licenziato senza avere niente in Francia, ma ha trovato lavoro subito e senza conoscere la lingua”. Oggi Marco lavora in un’impresa di biciclette, la sua grande passione, mentre Agnese è capo progetto per una multinazionale che si occupa di ricerca clinica: “Qui ho un supergruppo e ho la possibilità di vedere applicata la ricerca clinica”. Hanno appena avuto il primo figlio: “Forse sarebbe arrivato prima se fossimo stati in Italia: il fatto di essere soli, senza il supporto delle nostre famiglie, è una cosa che ci ha sempre preoccupati e ci preoccupa tuttora”.

Dopo tante esperienze in giro per il mondo, Agnese vorrebbe spostarsi ancora, ma tornare a casa non sembra un’ipotesi percorribile: “Non ho niente contro l’Italia e molte tutele in Francia sono peggiori, a partire dagli asili nido, con pochissimi posti nel pubblico e molto costosi. Ma Lione funziona, ha due fiumi, è curata, ci si muove facilmente. Alla fine non è che cerchi chissà cosa da una città, basta che ti faciliti la vita. Tornerei anche in Italia – dice – ma dove? A Milano? Non mi vedo in una realtà così frenetica, e poi il patto di coppia è sempre stato vivere vicino alla natura”.

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