Ivan non ha mai servito nell’esercito russo, ma visto che dopo l’annuncio della mobilitazione ordinata da Vladimir Putin hanno iniziato a reclutare indiscriminatamente, con la compagna Alina ha pensato di lasciare la Russia. Ivan lavora in un’istituzione statale, dove prima o poi gli sarebbe stata sicuramente consegnata una convocazione, ma i ragazzi hanno deciso di attendere prima di prendere la decisione di lasciare tutto: entrambi a Mosca hanno famiglia, amici, lavoro. Avevano appena comprato un appartamento e stavano finendo i lavori di ristrutturazione. pochi giorni fa avevano ricevuto la cucina che ora rimarrà imballata in un appartamento vuoto: il 27 settembre, entrambi hanno fatto i bagagli in una sera e sono volati via dalla Russia.

Alina è andata in Armenia: dopo l’annuncio della mobilitazione, la sua azienda ha trasferito tutti in smart working portando fuori dal Paese tutti i dipendenti che lo desideravano. Ora Alina si trova a Yerevan, dove è stata accolta dagli amici, emigrati qui subito dopo l’inizio della guerra. La ragazza ora deve pensare a come ricominciare la propria vita in un nuovo Paese e prevede già grandi spese: “Pensavo di mettere da parte soldi per una casa, invece l’ho fatto per far fronte a una guerra”. Qui Alina aspetta Ivan che è riuscito a trovare un biglietto solo per il Kirghizistan, quelli per l’Armenia costavano molto di più. “Io e il mio capo non abbiamo mai discusso di politica, ma mi ha sostenuto. Ha detto ‘bravo, vattene, questi bastardi inonderanno di sangue l’intero Paese‘”, racconta a Ilfattoquotidiano.it. È partito per l’aeroporto nella speranza di non essere ancora nelle liste per la mobilitazione. “Dal momento in cui ho chiuso la porta di casa con la chiave, fino all’atterraggio all’aeroporto in Kirghizistan, ho pensato solo a una cosa: ‘sono fottuto'”. Ma il volo non ha avuto alcun problema e in Kirghizistan il giovane è stato ospitato da conoscenti. Per adesso, non può volare dalla sua ragazza a Yerevan perché non può permettersi voli diretti e altri fanno scalo in Russia. “Il tizio che mi ha accolto qui ha un piccolo negozio di computer. So anche io come assemblarli, quindi mi terrò impegnato – spiega – Ho solo un problema che per ora non riesco a risolvere, non ho ancora detto niente a mia madre“.

“Inizialmente, non volevamo andare da nessuna parte“, racconta invece Dmitry. Formalmente appartiene alla categoria dei riservisti che non avrebbero dovuto essere convocati durante una mobilitazione “parziale”. Il problema era che suo fratello Pavel era un tenente di riserva e sarebbe stato chiamato di sicuro. Inoltre, in rete è iniziata a circolare una “lista di reclute” proveniente da un server hackerato del ministero della Difesa, anche se probabilmente si trattava di un fake. I fratelli hanno trovato i loro nomi e dati nella lista e così hanno deciso di non perdere tempo. Su un sito d’annunci hanno trovato subito un autista che ha accettato di dar loro un passaggio “verso sud”, hanno fatto immediatamente le valigie e sono partiti verso il confine con la Georgia all’alba del 25 settembre.

Hanno percorso la maggior parte della strada senza problemi, ma all’ingresso dell’Ossezia del Nord hanno iniziato a incontrare dei blocchi stradali: la polizia aveva bloccato tutte le deviazioni e stava incanalando tutte le auto sull’autostrada federale dove si era già accumulato un ingorgo per diversi chilometri. I residenti locali hanno aiutato i fratelli ad aggirare l’ingorgo, ma si sono rifiutati di portarli illegalmente in Georgia passando per strade secondarie. “Il nostro autista ha avuto il numero di un guardaboschi dell’Ossezia del Nord, ma lui ha subito detto che non sarebbe stato in grado di portarci al di là della frontiera nemmeno a cavallo, perché su ogni sentiero c’erano pattuglie della polizia”, dice Pavel.

Entro la notte, i fratelli hanno raggiunto il villaggio di confinen di Verkhny Lars, ma la strada era bloccata dalla polizia. Hanno lasciato l’autista, che non dormiva da più di un giorno, e sono partiti a piedi verso il confine. “Molte persone camminavano insieme a noi. L’immagine era piuttosto triste, simile alla scena di un film apocalittico“, ricorda Dmitry. I ragazzi hanno camminato per 4 ore e hanno percorso circa 20 chilometri. “Siamo stati fortunati, la gente in macchina ha aspettato in coda per diversi giorni. Lì, in questo ingorgo, tutti si sono rivelati uguali nelle loro capacità e prospettive: non era importante se guidavi una Lada o una Maybach. Abbiamo incontrato persone da tutte le regioni della Russia, soprattutto ragazzi giovani. Lì eravamo tutti sulla stessa barca“.

Era vietato attraversare il confine a piedi e le persone in fila non permettevano quasi mai di salire sulle loro auto. I fratelli hanno dovuto contrattare con i tassisti locali che per 10mila rubli a persona (circa 180 euro) li hanno trasportati oltre il checkpoint. I due giovani hanno superato entrambi i confini senza problemi e sono così usciti dalla parte georgiana. “Ci siamo resi conto che tutto era finito solo all’alba, sorgeva il sole – ricorda Pavel – Siamo andati a Tbilisi con un tassista che ci aveva preannunciato che stavamo per percorrere una strada panoramica: montagne, cime innevate che scintillavano alle prime luci dell’alba. Ma noi ci siamo addormentati e ci siamo persi tutto”.

“Nessun sollievo – chiarisce però Dmitry – In Russia sono rimasti i nostri parenti, gli animali domestici e, soprattutto, abbiamo perso la sensazione di essere a casa”. “La cosa peggiore per me è che ho dovuto lasciare la mia abitazione – gli fa eco Pavel – Ho sempre voluto, e voglio ancora ora, migliorare il mio Paese. Ma mi hanno semplicemente cacciato”. A Tbilisi ci sono molti russi nello stesso stato di confusione. “È chiaro che nessuno è in vacanza – afferma Dmitry – La paura e l’impossibilità di avere delle prospettive si respirano nell’aria. Da febbraio tutte le gioie del mondo sono svanite e si vive come in un perenne stato di stordimento”. I ragazzi hanno paura per chi è rimasto in Russia e per chi sta ancora attraversando il confine perché ora le condizioni sono molto più dure. “In realtà, penso che tutto questo sia un atto eroico delle donne. Sono state le donne a trovare la forza di mandare fuori sia noi che i nostri conoscenti che sono fuggiti. Perché hanno capito subito il pericolo in arrivo”.

“Probabilmente, non ho vissuto una giornata più nera di quella”, ricorda invece Nastya parlando del giorno in cui è stata annunciata la mobilitazione. “All’inizio dell’anno, io e Sasha abbiamo deciso che volevamo vivere in Russia, comprare un appartamento e avere dei figli qui. In quel momento, la nostra decisione sembrava quasi fuori moda, perché in Russia c’era da tempo la tendenza a lasciare il Paese. Ma avevamo un lavoro stabile, un buono stipendio, un appartamento tutto nostro. Negli ultimi due anni siamo facevamo parte della normale classe media, abbiamo vissuto una vita felice e tranquilla“. Il 24 febbraio tutto è cambiato radicalmente, e i ragazzi hanno capito chiaramente che dovevano andarsene.

Come molti giovani ragazzi, dopo l’inizio della guerra, Nastya e Sasha si sono sposati per avere accesso legale l’uno all’altro in prigione o in ospedale e anche per rendere più facile emigrare insieme. Hanno iniziato a preparare attivamente la loro partenza per il Canada: studiavano inglese, preparavano i documenti e aspettavano l’approvazione dal servizio di immigrazione canadese. “Abbiamo definito per noi stessi una linea rossa: siamo pronti a partire se nel Paese verrà istituita nuovamente la pena di morte (con il timore che potesse diventare uno strumento contro gli oppositori politici) o se verrà annunciata la mobilitazione. Cioè, se ci sarà una minaccia per le nostre vite”. Il 21 settembre, Sasha ha acquistato il biglietto prima che Putin finisse il suo discorso. La sua azienda, per evitare la consegna di convocazioni, ha immediatamente trasferito i dipendenti uomini al lavoro a distanza. Sasha se ne è andato la mattina dopo.

Nastya ha deciso di rimanere a Mosca e fare almeno le valigie. “Andavo all’aeroporto ogni giorno per salutare amici o aiutare conoscenti con la loro partenza. C’erano così tante persone che piangevano”, ricorda Nastya. Ha subito comprato i biglietti anche per sé, voleva volare via prima della fine dei referendum, anche se ammette che ora l’orizzonte di pianificazione è di circa mezz’ora. “Anche a me è stato permesso di lavorare dall’estero. Per il trasferimento bisognava compilare dei documenti, mi è stato chiesto l’indirizzo dove avrei vissuto, ma non lo sapevo. Allora mi hanno chiesto la città o il Paese, non sapevo nemmeno quelli”.

Nastya ha seguito suo marito il 28 settembre. “È molto difficile salutare le persone. A qualcuno non devi spiegare niente, a qualcuno deve raccontare a lungo perché hai preso questa decisione “, dicono i ragazzi. “Volevamo avere figli, ma il 25 febbraio ho detto, probabilmente la cosa più dura da accettare, che non voglio partorire in questo Paese, ho paura. Ora abbiamo il timore anche di camminare per strada e discutere di qualcosa”, dice Nastya. I ragazzi sono molto commossi dal modo in cui sono stati trattati in Uzbekistan, dove alla fine sono arrivati. “Gli uzbeki mi dicono ‘non ci interessa la politica di Putin, tu sei russo, vuol dire che sei nostro amico. Siete stati ospitali con noi, ora tocca a noi’”, dice Sasha. E aggiunge: “Ricordo quando sono salito sull’aereo e dalle casse la voce diceva ‘Buon pomeriggio, questa è la Uzbekistan Airways, oggi garantiamo la vostra sicurezza’. Ho pensato ‘non avete idea di quanto sia vero'”.

“Ora se ne vanno anche i miei conoscenti che a febbraio hanno detto che sarebbero rimasti qui fino all’ultimo”, ammette Nastya. “Avevano così tanta voglia di creare la ‘bella Russia del futuro’ che anche l’inizio della guerra non è diventato un argomento sufficiente per partire. ‘Sì, va tutto molto male, ma se ce ne andiamo, chi combatterà?’, si sono detti. La mobilitazione ha convinto anche questi ragazzi che era impossibile rimanere più a lungo nel Paese. A quanto pare, dovremo tornare qui un po’ più tardi, quando verrà il momento di restaurare la Russia”.

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