Uno di quegli eventi che si verificano una volta ogni cento anni. Così fu definita la stagione dei monsoni del 2010, in Pakistan, che provocò quasi 2mila morti. Solo che da allora sono passati appena 12 anni e, di nuovo, il Paese ha dovuto affrontare una catastrofe climatica che ha coinvolto 33 milioni di persone. Dopo due mesi di tempeste e inondazioni, continua a salire il numero di vittime. Il Paese, ormai per un terzo sommerso dall’acqua, è devastato come i suoi campi agricoli che non daranno cibo. Da giugno si contano oltre 1.300 morti, di cui più di 450 bambini e quasi 13mila feriti. Oltre 600mila sfollati sono stati ospitati in tendopoli. Secondo i dati della National Disaster Management Authority (Ndma), le piogge hanno ucciso circa 773mila capi di bestiame, danneggiato oltre un milione di case e ne hanno completamente distrutte altre 564mila.

È lotta contro il tempo per scongiurare lo straripamento del lago Manchar, il più grande del Pakistan, mentre 100mila persone sono già state evacuate dall’area circostante. Non è solo colpa dei monsoni estivi che ogni anno soffiano sull’Asia meridionale da giugno a settembre, portando l’umidità e la pioggia che serve anche alle coltivazioni. Anche il cambiamento climatico ha un suo peso. “Le alluvioni sono l’altra faccia del riscaldamento globale che quest’anno ha portato anche ondate di caldo estremo tra aprile e maggio. In Pakistan si sono sfiorati i 50 gradi Celsius” spiega a ilfattoquotidiano.it Antonello Pasini, fisico climatologo presso il Cnr. Il governo di Islamabad parla di una “catastrofe climatica di proporzioni inimmaginabili”. Eppure, nonostante gli appelli internazionali, la politica italiana tace. “È abituata a occuparsi solo di ciò che avviene nel nostro Paese, ma quello che accade dall’altra parte del mondo prima o poi si riversa anche su di noi” commenta Pasini.

Cosa sta accadendo in Pakistan – Il Pakistan, così come l’India, il Bangladesh e altri Paesi, si trova in una zona monsonica, dove per circa sei mesi non piove mai e per il resto dell’anno c’è la stagione delle precipitazioni. Ci sono poi dei cicli naturali in grado di influenzare intensità e frequenza dei monsoni. Per esempio, El Niño e La Niña portano rispettivamente un riscaldamento o un raffreddamento della temperatura delle acque superficiali dell’Oceano Pacifico centrale ed orientale. “A questi e altri cicli – spiega Pasini – si aggiungono anche gli effetti del riscaldamento globale, come l’aumento delle temperature dei mari e, di conseguenza, l’evaporazione dell’acqua. Si calcola che per ogni grado in più, il vapore acqueo in atmosfera aumenti del 7%. Parliamo dei mattoni con cui si formano le nuvole”.

Così il riscaldamento globale ha contribuito in modi diversi al disastro tuttora in atto. Non solo ha accelerato lo scioglimento dei ghiacciai, ma ha reso anche più intense le precipitazioni. Lo stesso Pasini, ad aprile, intervistato da ilfattoquotidiano.it, aveva spiegato: “Ci troviamo nella stagione che precede quella dei monsoni, che a giugno porterà un cambiamento di vento con precipitazioni, ma anche cicloni tropicali e tifoni”. Il fatto è che, tra luglio e agosto, sul Pakistan sono caduti oltre 390 millimetri di pioggia, quasi il 190% in più rispetto alla media degli ultimi 30 anni, percentuale che supera il 460% nella provincia di Sindh, la più colpita. Il resto lo ha fatto il terreno e, ancora una volta, c’entra il riscaldamento globale. Perché la siccità dei mesi primaverili ha anche spaccato il suolo, rendendolo impermeabile alla pioggia. L’acqua continua a defluire in superficie, provocando le inondazioni.

Gli allarmi internazionali. E il silenzio dell’Italia (e non solo) – Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, definisce scandaloso il fatto che “l’azione per il clima venga messa in secondo piano, con le emissioni globali di gas serra ancora in aumento” e invita i governi a “smettere di camminare come sonnambuli” perché “oggi è il Pakistan. Domani potrebbe essere il vostro Paese”. Eppure, nonostante gli allarmi, gli appelli internazionali e una conta dei danni appena iniziata e già arrivata a oltre 10 miliardi di dollari, in Italia la politica è silente.

La Cooperazione Italiana ha disposto un contributo di emergenza di 500mila euro per la Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa in Pakistan, ma la catastrofe è fuori da ogni dibattito. Sebbene questa volta nei programmi dei partiti impegnati nella campagna elettorale ci siano anche i temi della tutela dell’ambiente, della crisi climatica e, in alcuni casi, anche delle politiche di adattamento. Ma questa è un’altra storia, tutta nostrana. Sembrano lontani i tempi in cui, proprio alla Pre-Cop 26 di Milano, sul palco i politici di tutto il mondo hanno ascoltato le storie dei ragazzi provenienti dai Paesi a cui il cambiamento climatico sta spazzando via il futuro. Quelli con il terrore negli occhi, perché avevano già visto cosa possono fare piogge, inondazioni e mancanza totale di qualsiasi pianificazione. Peggio va ora, a due mesi dalla Cop 27 alla quale si arriva con uno scenario geopolitico stravolto e molte divisioni, in primis sullo sfruttamento dei combustibili fossili.

Eppure l’impossibilità di trovare persone sepolte nel fango, mentre nei campi galleggiano le carcasse di animali, 243 ponti e oltre 5mila chilometri di strade distrutti, sono tutte conseguenze di una serie di fenomeni legati al cambiamento climatico e, dunque, alle emissioni. “Di fronte a quanto sta avvenendo in Pakistan la politica italiana tace perché è una catastrofe lontana. Non riusciamo neppure a vedere le migrazioni climatiche dalla fascia del Sahel, in Africa, figuriamoci quello che avviene dall’altra parte del mondo”, commenta Pasini. E poi c’è la particolare situazione geopolitica con i suoi effetti economici che rischiano di diventare un alibi.

Perché il Pakistan ci riguarda da vicino – “Occuparsi del clima e dei suoi effetti in Paesi lontani da noi viene considerato un lusso quando ci sono da affrontare altre emergenze, come quelle legate alla dipendenza dal gas russo”, commenta Pasini. “Se si cercano solo soluzioni tampone, come quella di ricorrere al carbone, non ci si accorge che nel frattempo il cambiamento climatico va avanti fino a quando non si riesce più a fermarlo”. Dopo la lettera firmata da una quarantina di scienziati ad agosto scorso, nella quale si chiedeva ai politici di accendere i riflettori del dibattito elettorale sulla crisi climatica in atto, in questi giorni il comitato ha chiesto anche un tavolo di confronto con i partiti e lanciato un sito nel quale si indicano a cittadini, imprese e istituzioni una serie di azioni ‘scientificamente fondate’. “Ha ragione Guterres quando dice che il dramma del Pakistan ci riguarda da vicino, perché il clima non ha confini – spiega Pasini – e perché esiste una globalizzazione climatica, alla stessa maniera in cui esiste una globalizzazione economica. Quello che succede dall’altra parte del mondo prima o poi si riversa anche su di noi, o con conseguenze fisiche, meteorologiche o di altro tipo”. E se oggi nove migranti su dieci arrivano dalla fascia del Sahel, il resto proviene proprio da quell’area. “Ma queste catastrofi – aggiunge Pasini – riguardano sempre più zone del mondo, basti pensare all’uragano Katrina o ai tifoni nelle Filippine. Forse non ci rendiamo conto del numero di persone che potrebbero essere costrette a migrare nei prossimi decenni a causa di eventi estremi”. Secondo un rapporto della Banca Mondiale, senza un cambio di rotta fra 30 anni potrebbero esserci 216 milioni di persone in fuga dalle loro terre a causa del cambiamento climatico.

Il nodo mai sciolto dalle Conferenze sul clima – Resta sullo sfondo, seppur cruciale, il nodo mai sciolto della finanza climatica di cui tanto si è discusso anche a Glasgow e che non può risolversi tamponando l’emergenza. Il Pakistan ha ottenuto un prestito di oltre un miliardo di dollari dal Fondo Monetario Internazionale per evitare un default ormai imminente, mentre l’Onu ha lanciato un appello per un finanziamento di 160 milioni di dollari. Forse inevitabili le accuse mosse, tra gli altri, dal ministro per il Clima del Pakistan, Sherry Rehman. “I Paesi inquinatori che sono i maggiori responsabili del collasso climatico hanno infranto le loro promesse di ridurre le emissioni e aiutare i Paesi in via di sviluppo ad adattarsi al riscaldamento globale” ha detto sottolineando che il Pakistan ha contribuito storicamente per meno dell’1% alle emissioni globali, pur essendo tra i Paesi più vulnerabili rispetto agli effetti del cambiamento climatico.

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