Un’altra assoluzione di peso – oltre quella dei carabinieri del Ros nonostante “l’improvvida iniziativa” per il bene dello Stato” – riguarda l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri che, come i carabinieri Mario Mori e Antonio Subranni, era stato condannato a 12 anni. Manca la “certezza della prova” l’imputato “nonostante il suo pesante coinvolgimento nella fase preelettorale ed anche postelettorale (con delle azioni tali da assumere astrattamente rilievo per una differente fattispecie di reato, tuttavia coperta dall’intangibile giudicato assolutorio di cui si è detto intervenuto per i fatti di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p. successivi al 1992) non abbia concorso nella minaccia al Corpo politico dello Stato. Non si ha prova, in altri termini, che questo imputato, nonostante le sue ramificate implicazioni nell’antefatto, abbia portato a termine quel progetto ricattatorio/minaccioso di cui pure egli aveva piena conoscenza per volere degli esponenti di Cosa Nostra ed a seguito delle sue reiterate interlocuzioni, intercorse fino a dicembre del 1994, in particolare con Vittorio Mangano”.

Inoltre “muovendo dalla posizione di Marcello Dell’Utri – scrivono i giudici – si è avuto modo di osservare che difetta la prova certa che lo stesso abbia fatto da tramite per comunicare la rinnovata minaccia mafiosa/stragista sino a Berlusconi quando questi era Presidente del Consiglio dei Ministri così percorrendo quello che, per opera di semplificazione, può essere individuato prosegue la Corte di assise di appello – come “l’ultimo miglio” percorso il quale il reato sarebbe stato portato a consumazione“.

IL TENTATIVO DI MINACCIA ALLO STATO – La corte ha confermato invece le condanne per i capi Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. “Pur in assenza della prova della veicolazione della minaccia in danno del presidente Berlusconi è evidente che il reato si sia arrestato al livello del tentativo con una condotta che va in questi termini attribuita agli imputati Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca… È indubbio, infatti, che il progetto ricattatorio ripreso nel marzo del 1994 da questi soggetti, dopo gli arresti prima di Riina ed a seguire dei fratelli Graviano (che avevano un loro canale di comunicazione con Dell’Utri), non sia stato portato a compimento, contrariamente alla volontà degli stessi Bagarella e Brusca, soltanto perché – scrivono i giudizi nelle motivazioni – Dell’Utri non ha veicolato (rectius: non vi è la prova che lo abbia fatto) la minaccia fino al Governo”. D’altra parte che le condotte dei militari ci siano state- comprese quelle omissive che riguardano la mancata perquisizione del covo di Riina e la mancata volontà di arrestare Provenzano – lo dimostra anche la conferma della condanna di Cinà. Il medico di Riina è accusato di aver fatto da postino al papello, cioè il foglio di carta con le richieste avanzate dal capo dei capi per far cessare le stragi. Quel pezzo di carta era destinato a Massimo Ciancimino, che lo avrebbe passato al padre Vito e da quest’ultimo sarebbe poi stato consegnato ai carabinieri. Quella di Cinà è l’unica condanna confermata integralmente dalla corte d’Assise d’Appello: vuol dire che in questo caso per i giudici il reato di violenza o minaccia a un corpo dello Stato si è consumato in modo totale.

I giudici – accogliendo anche le risultanze dei processi con sentenza definitiva – ritengono che siano provati i contatti tra Vittorio Mangano e Dell’Utri. Ma non che il messaggio sia arrivato a Berlusconi. Brusca, ricordano i giudici, ha chiarito di avere espressamente incaricato Mangano di prospettare all’ex senatore che qualora non si fosse “messo a disposizione”, la prosecuzione dell’attacco diretto e frontale allo Stato: “E di dirgli se non si inette a disposizione noi continueremo con la linea stragista…“. Ma per i magistrati non è provata il successivo passaggio: “Una problematica, quella della conoscenza o meno da parte di Berlusconi delle minacce stragiste ventilate da Cosa Nostra, che attraversa questi periodi e che si ripropone, sebbene sottendendo conseguenze giuridiche decisamente diverse, sia in riferimento alla fase antecedente al maggio del 1994 (quando Berlusconi non aveva incarichi di governo e quindi la minaccia al Corpo politico dello Stato non poteva essere per questa via integrata) sia dopo il maggio del 1994 (quando la minaccia, se recapitata al Presidente del Consiglio Berlusconi o ai danni di altri esponenti di quel Governo, ben avrebbe potuto portare a consumazione il reato di che trattasi)”.

LA TESTIMONIANZA DI BRUSCA – I magistrati riportano le dichiarazioni di Brusca al riguardo: “Doveva incontrarsi (Mangano/Dell’Utri, ndr))… il messaggio era diretto a Silvio Berlusconi, poi in quella circostanza non mi ha detto… ma ha incontrato solo Marcello Dell’Utri, poi il successivo, se il messaggio è arrivato anche a Berlusconi, questo non ho avuto modo di approfondirlo. L’obiettivo era Marcello Dell‘Utri però il punto finale era Silvio Berlusconi”) ma che, comunque, Dell’Utri si impegnò ad attivarsi nel senso richiestogli (“Che da li a poco si sarebbe allertato per quelle che erano le loro possibilità. In quel momento io chiedo… come si dice? Chiedo subito l’‘attivazione per il 41 bis, se potevano fare qualche cosa, ma il motivo principale era di agganciare un altro canale politico”). Per i giudici quindi anche il fatto che lo stesso Brusca non sapesse se il messaggio era stato recapitato è uno degli elementi della mancanza della prova dell'”ultimo miglio”.

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Trattativa, i giudici: carabinieri assolti “agirono nell’interesse dello Stato”. Ma fu “improvvida iniziativa” seguita da “sconcertanti omissioni” su covo di Riina e latitanza Provenzano

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