L’impressione è che, nonostante il silenzio perfetto in cui spesso per lunghi giorni sembra avvolta, sulla scrivania più importante di Palazzo Chigi i problemi si stiano accatastando, una sopra l’altro. Meglio: si aggiungano, una via l’altra, date di scadenza, o presunte tali. Il capo del governo, Mario Draghi, le ha tutti davanti, in un calendario che si allunga a poco a poco ma in modo progressivo. Ci sono i voti parlamentari sul decreto Aiuti e già il M5s dice che uscirà dall’Aula del Senato. C’è “la fine di luglio” indicata dal leader dei 5 Stelle Giuseppe Conte come termine ultimo (o penultimo) per una risposta sui 9 punti fissati nel documento consegnato al presidente del Consiglio. Poi c’è settembre e il segretario della Cgil Maurizio Landini parla (oggi, sulla Stampa) di “mobilitazioni di tutti i tipi” perché Draghi “non ascolta e non promuove riforme sociali”. Per non parlare, un mese dopo, della Finanziaria, da mettere insieme con una maggioranza in cui tira quest’aria frizzantina. E infine la campagna elettorale che difficilmente sarà tenuta al guinzaglio dopo l’autunno.

Nello stesso momento si sommano i dossier, le richieste, le tirate di giacca. Già nella settimana entrante Draghi si troverà ad affrontare le prime curve e i primi ostacoli sul rettilineo che porta alla fine del mandato. Può apparire consolatorio parlare solo delle istanze del M5s di cui peraltro si è detto per giorni: ci sono quei 9 punti, secondo i giornali il presidente Draghi è ottimista su tutti ad eccezione della proposta di rateizzazione delle tasse. Ma da giorni – tra mezze conferme e mezze smentite – sembra partita una corsa a chi non vuole rimanere col cerino in mano, cioè in un governo che tiene le mani legate specie le forze politiche che hanno iniziato la legislatura governando e la finiscono con un’emorragia di voti. Così accanto ai 5 Stelle, in questa gara, continua a essere la Lega. Se il Carroccio da una parte non rinuncia alla polemica su Ius scholae e legge sulla cannabis, dopo una settimana forse ha capito che non possono essere le questioni su cui innalzare la tensione e men che meno annunciare l’uscita dalla maggioranza di un governo di unità nazionale. E infatti oggi il segretario Matteo Salvini ridefinisce la gerarchia dell’agenda: pace fiscale, migranti, pensioni. Gli è venuto facile, negli ultimi giorni, spostare il suo obiettivo sulla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, dopo le foto del centro d’accoglienza di Lampedusa: è un modo più raffinato ma forse più efficace di minare il percorso della legge sulla cittadinanza (anche se evidentemente non c’entra nulla). Ma poi ci sono i temi economici. Sul caro vita e sugli aiuti alle famiglie e alle imprese è difficile che la maggioranza litighi. Ma l’elenco, come per abitudine di Salvini, è lungo: “Ci aspettiamo un supporto specifico per famiglie e imprese con una rinnovata pace fiscale. Rottamazione, stralcio, rateazione: discutiamo insieme lo strumento migliore” dice il leader leghista al Quotidiano Nazionale. Inoltre “entro fine anno dobbiamo superare la sciagurata legge Fornero con Quota 41, poi avanti tutta con l’equo compenso per i liberi professionisti (promessa mantenuta almeno in commissione), e con l’autonomia regionale, per la quale manca solo il via libera di Draghi”. Lega di lotta e di governo? Esiste la Lega. Nel partito, dal militante fino ai parlamentari, c’è una crescente insofferenza per i comportamenti della sinistra al governo e per alcuni ritardi dell’esecutivo. Vedremo le risposte su lavoro, pensioni e sicurezza”. “Il governo Draghi rischia se non fa le cose” è l’avvertimento. Ma rottamazione e riforma della Fornero possono andare forti come comunicazione elettorale, ma non sono certamente il piatto preferito di Palazzo Chigi e ministero dell’Economia. Oltre al merito, poi, c’è l’aspetto politico: se Draghi farà “concessioni” al M5s per tenerlo dentro l’esecutivo, come farà a non farne agli altri partiti di governo?

Dalle parti dei 5 Stelle arriva una secchiata di ghiaccio lanciata dal ministro dell’Agricoltura Stefano Patuanelli capodelegazione di fatto dei grillini nel consiglio dei ministri. Ci dobbiamo aspettare un Papeete bis? gli chiede Repubblica. “Ma no”, risponde lui: “A parte che il Papeete di Salvini è stata una crisi immotivata. Noi abbiamo posto dei temi centrali per il Paese a cui Draghi deve rispondere. Francamente non credo che questo si possa definire un Papeete”. “Mi auguro – afferma – che le risposte arrivino. Ma per il bene dell’Italia, non perché bisogna accontentare i 5 Stelle”. Alla domanda se l’ipotesi della non-fiducia, con l’uscita dall’Aula al momento del voto, sia percorribile per il M5s, il ministro risponde possibilista: “Vediamo. Non lo escludo, non lo escludo”. Lo conferma il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia: “Se il decreto aiuti non migliorerà, il M5s potrebbe uscire dall’Aula del Senato. La linea è chiara: non vogliamo un Papeete bis, ma il salario minimo”. Il passaggio potrebbe essere un ulteriore “avvertimento” verso Palazzo Chigi. La temperatura della crisi, per il presidente della commissione Affari costituzionali Giuseppe Brescia, è “abbastanza alta”. E d’altra parte “credo che l’Italia sia in una situazione così delicata che sarebbe difficile andare a elezioni in autunno, con la manovra alle porte. Il governo Draghi andrà avanti, con noi all’opposizione”. Un’idea che continua a trapelare dalle dichiarazioni degli esponenti M5s (lo dice per esempio anche Patuanelli): usciamo dal governo, ma non c’è bisogno di nessun bis. Ma a quel punto a Palazzo Chigi bisognerà pensare a un modo per non tradire del tutto il buon auspicio secondo il quale “non esiste governo senza M5s”.

Nelle stesse ore il Corriere della Sera, non smentito, racconta che per Giuseppe Conte il tema è diventato ormai “quando” uscire. Il rischio – dal punto di vista dell’immaginario – è riportare alla mente la catastrofica crisi di governo voluta da Salvini nel 2019 (catastrofica per lui perché poi nacque il governo di centrosinistra). Ma dall’altra parte, racconta ancora il Corriere, Conte si aspetta da Draghi “risposte vere e concrete, siamo una forza seria e non restiamo al governo per farci schiaffeggiare”. Ci sono mediatori al lavoro sia nel Pd sia nel M5s (e i ministri sono tra questi) ma il leader M5s sembra già un passo oltre: “C’è un pezzo di mondo economico e culturale che punta alla melassa e vuole far saltare l’alleanza progressista” avrebbe detto l’ex premier ad alcuni dirigenti democratici.

Infine, come se fosse l’ultima questione e forse è la prima, c’è chi bussa alla porta e per una volta non sono i leader di partito, ma chi rappresenta il mondo del lavoro. Il segretario della Cgil Maurizio Landini nega di voler fare un partito e presentarsi alle elezioni, come indicano voci incontrollate. E se ne parla tanto, prova a spiegare, perché “c’è un vuoto politico, una rottura fra lavoro e politica, ed è la prima volta, se ci si pensa. In Parlamento c’è sempre stata una rappresentanza anche del lavoro. Il nostro mondo ha bisogno di una rappresentanza, è chiaro. Del resto questa rottura è il tema del nostro Congresso”. Landini spiega di aver accolto con favore Draghi: “Sono stato tra chi non voleva andare a votare, e ho visto con favore che venisse messo in pista un uomo della sua autorevolezza, che per altro regge ancora oggi. Ma contro di lui, nel dicembre 2021 abbiamo fatto con la Uil uno sciopero generale, tutto politico. Infatti, non sta producendo riforme, o almeno quelle che vogliamo noi, in chiave sociale; si muove anzi in senso inverso. E non ci ascolta. Mai coinvolti, al massimo informati”. Per martedì è previsto un incontro: “L’ultima volta che siamo stati convocati è stato il due maggio, ed ora il 12. Questo è quanto”.

Il premier sta preparando la riunione di martedì, dove si potrebbe parlare di rinnovo dei contratti, taglio del cuneo fiscale e anche della proposta a cui sta lavorando il ministro Andrea Orlando sui minimi salariali, per il contrasto al lavoro povero. Questioni e appuntamenti già programmati da tempo, ma che potrebbero offrire un’importante sponda anche allo stesso Conte, è il ragionamento. Resta da capire se sarà sufficiente.

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Mi lascia sgomento che un Paese si metta con cieca fiducia nelle mani di qualche ottantenne

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