L’exclave russa di Kaliningrad è un prodotto dell’epoca di Stalin: fin dalla conferenza di Teheran nel dicembre 1943 il Cremlino rese palese la volontà di voler occupare in modo permanente questa porzione di territorio stretta fra la Polonia, la Lituania e il Mar Baltico, e abitata per quasi sette secoli dai tedeschi. L’oblast di Kaliningrad, per capire di che cosa si tratta, ha una superficie più o meno uguale a quella della Calabria e attualmente ha una popolazione residente – quasi per il 90% etnicamente russa – pari all’incirca alla città di Torino. Da un lato si affaccia per 145 chilometri sul Mar Baltico, mentre sugli altri lati confina con l’Unione europea. Questo punto è molto importante: non sono la Polonia o la Lituania a decidere sul traffico di persone, merci, capitali e servizi fra questi Paesi e Kaliningrad, ma è la Commissione europea. Insomma, Varsavia e Vilnius sono solo esecutori di decisioni prese da tutti i Paesi e dal “governo dell’Unione”, ma di fatto si trovano in prima linea direttamente. Mosca minacciando Vilnius – invece che Bruxelles – dice a nuora perché suocera intenda.

Perché è così importante per Mosca questa exclave, il cui capoluogo è distante oltre mille chilometri in linea d’aria? Diciamo che è un relitto della Seconda guerra mondiale e della prima parte della Guerra Fredda che l’Unione Sovietica degli ultimi anni e la Federazione russa dopo il 1991 hanno stentato a riconoscere per quello che era il suo – troppo ambizioso – ruolo all’inizio. In pratica, tre generazioni fa la presenza umana e militare dei sovietici a Kaliningrad serviva all’Urss per tenere un piede nel cuore dell’Europa, con un numero di battaglioni sufficienti a “regolare i conti” con la Germania orientale – come poi accadde nel 1953 – e con la Polonia, nel caso in cui avessero tentato di staccarsi dall’orbita sovietica. Doveva anche – e soprattutto – servire a trasformare il Mar Baltico in un “lago russo”, grazie alla presenza di basi dalla Germania fino a Leningrado: così, senza troppi complimenti, la marina sovietica – che nell’ex capitale zarista aveva uno dei suoi porti più strategici – poteva agevolmente proiettarsi verso l’estremo opposto del Mar Baltico e da lì, approfittando della neutralità svedese, affacciarsi sul Mar Nero. Fra l’altro, Kaliningrad non richiedeva neppure alcuna fortificazione: fra gli alleati di Washington e Londra, solo la Danimarca aveva una forza navale un po’ consistente. Per il resto, il non allineamento di Svezia e Finlandia dava ai sovietici carta bianca nel Baltico. Il quale, vale la pena ricordarlo, ha una lunghezza di circa 1.600 chilometri, il 60% in più della nostra Penisola, mentre come larghezza media non arriva a 200 chilometri. In parole povere, non offre acque internazionali in cui transitare ma impone di volta in volta di chiedere il permesso per far passare navi commerciali o incrociatori.

Con la fine dell’Urss, non sono mancati dubbi sulla sostenibilità della gestione di questo fazzoletto di terra: Lituania, Polonia e anche Germania non si sono dimostrate troppo interessate a prenderla, anche a causa di quasi 1 milione di russi al suo interno, potenzialmente un “cavallo di troia” di Mosca. Così, col ritorno di Putin al Cremlino, nel 2012, è aumentato in modo impressionante il ruolo geostrategico del piccolo oblast, che rappresenta meno dell’uno per mille del territorio russo: Mosca ha investito moltissimo nel farne una base per la marina e le forze missilistiche. Nel farlo, ha spostato molto a est la linea mediana dei suoi interessi in quell’area, cercando di tagliare i Baltici – e l’isola svedese di Gotland – dal mondo occidentale. Possiamo dire che Putin ha sbagliato tutti i suoi conti: senza più la benevola neutralità di Svezia e Finlandia, terrorizzate per anni dal Cremlino, muoversi in quelle acque prive di una “autostrada internazionale” è diventato impossibile. Al di là di questa crisi estiva, c’è da dubitare che l’oblast possa sopravvivere senza la possibilità di ricevere combustibili per il trasporto e il riscaldamento, oltre a pezzi di ricambio, per via navale e terrestre. Anzi, persino per via aerea, dato che comunque i velivoli russi o in transito da e per la Russia devono richiedere il permesso ai baltici, ai polacchi e agli scandinavi, tutti Paesi “bullizzati” da Mosca da tempo.

Insomma, questa storia dimostra come una risorsa importante, se gestita senza giudizio, possa perdere completamente il suo valore. Così, non è da escludere che i discendenti di quasi mezzo milione di russi trasferiti con la forza qui negli anni Quaranta possano nei prossimi mesi essere spostati verso Est per non farli congelare. Ma chi se la sente di escludere che la Russia decida, per provocazione, di lanciare dei missili ipersonici dalle rampe posizionate a Kaliningrad verso l’Ucraina, violando lo spazio aereo lituano così come fanno i Nord Coreani col Giappone?

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