Emergenza, grandi concentrazioni al posto di suddivisioni territoriali, mancanza di programmazione: è la fotografia che racconta la gestione dei migranti in Italia. Si articola seguendo due sentieri. Il primo, ordinario, è il Sai – Sistema di accoglienza e integrazione, ex Sprar ed ex Siproimi, in capo ai Comuni – il secondo passa attraverso i centri di accoglienza straordinaria, Cas. Quest’ultimo è un circuito ritenuto emergenziale, che viene tuttavia impiegato come fosse strutturale. Lo dice un monitoraggio di ActionAid, che a partire dal 2018 ha ricostruito distribuzione, tipologia e dimensione dei centri presenti all’interno dei confini nazionali. Ora il loro lavoro, svolto insieme a Openpolis, è consultabile sulla piattaforma – la prima mai realizzata – Centri d’Italia. “Il nostro obiettivo era riempire un vuoto informativo: i dati su questo tema emergono nel corso di un’unica relazione in previsione ogni anno a fine giugno. Aspettiamo, quindi, che il ministero dell’Interno faccia lo stesso: il terzo settore non può sostituire le istituzioni”, spiega Fabrizio Coresi esperto di migrazione per ActionAid. “Vorremmo che la migrazione non fosse basata sulla strumentalizzazione e sulla propaganda ma fosse portata avanti con l’analisi di dati che ci consenta di capire quale è stato l’impatto delle precedenti politiche migratorie”.

I numeri: strutture piccole sacrificate – Al 30 novembre 2021, il 68,34% richiedenti asilo (quasi 7 su 10) risiede nei centri di competenza prefettizia – cioè i Cas – mentre la restante minoranza si trova nel Sai. Questi i termini assoluti, certificati dal ministero dell’Interno – e riportati da ActionAid – verso la fine dello scorso anno: 53.664 persone nei Cas, 25.221 nel Sai e 781 nella prima accoglienza. “Sappiamo che sia per i territori sia per le persone in arrivo la migliore forma di accoglienza è quella micro, svolta cioè in centri di piccola o media dimensione”. E invece si va nella direzione opposta. Ancora qualche dato: fra il 2018 e il 2020 il numero dei centri attivi sul territorio nazionale è sceso del 25,1%, e contestualmente si è registrata una flessione del 40,2% dei posti disponibili. Il tutto, in parte, dovuto alla pandemia di Covid-19 che ha in parte ridotto gli sbarchi: “Ma a essere stati chiusi sono soprattutto i centri di piccole dimensioni (massimo 20 persone). In questo arco di tempo hanno perso quasi 22mila posti“. A fronte dei -20mila delle strutture grandi (dai 51 a 300 ospiti), dei -14mila di quelle medie e, soprattutto, dei -7.133 dei centri molto grandi (più di 300 persone). I Cas grandi, inoltre, registrano un aumento della loro capacità di capienza. Questi numeri, secondo Coresi, vogliono dire due cose: “Non si è approfittato dell’allentamento del ritmo degli sbarchi per avviare una programmazione strutturale sulla migrazione. Al contrario, si individua una spinta verso le grandi concentrazioni. L’opposto di quello che servirebbe”. Conferma arriva dal fatto che nel 2020 le 16 città più popolose, cioè quelle con più di 200mila abitanti, “ospitano il 18,2% delle persone. Due anni prima la percentuale era pari al 14,2%”. In media, si legge sul documento ActionAid, i centri di Roma e Milano sono molto più grandi rispetto al resto del Paese: in particolare a Milano la capienza media delle strutture è circa 10 volte la media nazionale. I centri più piccoli sono gli stessi che registrano anche il maggior taglio ai fondi attribuiti per spese di vitto, alloggio, e servizi necessari per l’integrazione per ogni ospite: – 27%. Servizi, quelli offerti, che sono carenti. Soprattutto nei Cas: “Abbiamo contabilizzato che in un centro di 50 persone un ospite ha a disposizione 12 minuti a settimana di mediazione linguistico – culturale. Il bando della prefettura prevede la garanzia di 10 ore per tutti gli utenti a settimana. Quindi 600 minuti diviso 50 persone = 12. Il tempo a disposizione – ogni sette giorni – per capire cosa ti sta succedendo”.

Le politiche migratorie – Due passaggi che si legano a due nomi: Salvini con il decreto sicurezza e l’attuale ministro dell’Interno Lamorgese. “Prima di Salvini, l’accoglienza funzionava così: il migrante arrivava in Italia dalla frontiera sud, a Lampedusa. Qui incontrava una prima modalità di selezione, che suddivideva i migranti economici dai richiedenti asilo. Come sappiamo, questi ultimi sono gli unici che possono accedere a un permesso di soggiorno regolare anche se sono arrivati illegalmente. I migranti economici vengono chiusi nei cpr, rimpatriati o respinti. I secondi invece entrano nel circuito dell’accoglienza, o Cas o Sprar. L’inserimento era arbitrario”. Poi arrivano i cambiamenti apportati con l’attuale leader della Lega: “Alla frontiera sud si ripresenta la stessa suddivisione di cui sopra, ma i richiedenti asilo possono entrare solo nei Cas, che diventano così una tappa obbligatoria (a differenza di prima). Restano lì in attesa che la Commissione territoriale incaricata di giudicare la loro storia si pronunci: se ricevono un diniego devono andarsene, se ottengono lo status di rifugiati vengono trasferiti nel circuito Sprar che ora è Sai. Ma il punto è che nel frattempo restano nei Cas, dove vivono un periodo di sospensione esistenziale che li distrugge. Il percorso di autonomia, fuori da lì, si fa sempre più difficile”. Quindi, l’intervento Lamorgese: “Torniamo almeno in parte all’assetto pre-Salvini. Purtroppo però manteniamo un sistema che rischia di essere discriminatorio e non in grado di accompagnare in maniera efficace all’autonomia. Il Sai mantiene infatti due livelli di servizi: alcuni “essenziali” previsti per i richiedenti asilo, ed altri “verso l’integrazione” riservati ai rifugiati. L’esperienza ormai ventennale del sistema pubblico in capo ai comuni – e la letteratura in materia – ci dicono che la fase iniziale è fondamentale nel prosieguo della vita dei nuovi cittadini. Un’attenzione e un investimento sulla persona che quindi dovrebbe essere messo in atto da subito, senza differenze di status“.

Il ruolo dei comuni – I comuni sono a capo dei progetti di accoglienza, ma, fa notare Coresi, “Possono applicare al sistema in modo volontario. Tuttavia, l’articolo 118 della Costituzione assegna ai comuni stessi le funzioni amministrative. Quindi perché l’accoglienza non dovrebbe rientrarci di diritto? Il criterio di volontarietà, al contrario, riduce il numero di comuni interessati. Questo è il problema principale. Se l’obbligatorietà non è una via percorribile, consideriamo l’ipotesi incentivi. In passato è successo: nel 2016 c’era una tantum per ogni migrante accolto che andava alle stesse amministrazioni comunali, per esempio”. Il punto è: andrebbe incrementato il sistema di accoglienza pubblico. “Manca un tavolo programmatico dal 2016. Ci dovrebbe essere una stima dei posti in accoglienza e poi una successiva pianificazione. E delle clausole di salvaguardia: per esempio, il divieto di installare Cas dove è presente la rete Sai. Ma tutto questo non si fa”. Con la piattaforma Centri d’Italia, quindi, propone un monitoraggio che non c’è. Chiude Coresi: “Sarebbe necessario che il ministero adottasse uno strumento simile al nostro: senza dati che consentano l’analisi delle precedenti, su quali basi si elaborano le nuove politiche migratorie?”

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