“Le bambine non esistono” è il racconto-verità che narra la vicenda della sua autrice, Ukmina Manooori. Edito da Libreria Pienogiorno, è in tutte le librerie italiane dal 13 gennaio. Nata al confine con il Pakistan, Ukmina Manoori è stata cresciuta come bacha poch, ovvero come un bambino per scongiurare la vergogna di non avere figli maschi. È così che Manooori acquista il diritto di avere una voce: ha scelto di usarla per raccontare la prigionia della condizione femminile nel suo Paese. Il libro, già bestseller internazionale, è molto più di una storia personale. È il ritratto delle condizioni cui sono soggette milioni di donne invisibili nell’Afghanistan dei talebani. Qui di seguito un estratto del testo, pubblicato in anteprima da Ilfattoquotidiano.it.

Non conosco la mia data di nascita. Da noi non si festeggiano i compleanni. Sulla mia carta d’identità c’è scritto che sono nata nel 1346, secondo il calendario solare iraniano che utilizziamo noi pashtun. È un’ipotesi, una data aleatoria, non ho nessun certificato di nascita, nessuna dichiarazione ufficiale che attesti la mia venuta al mondo. Quando ho dovuto richiedere un documento di identità, mia madre ha fatto due conti: devi essere nata intorno al 1346, mi ha detto. O al massimo un paio di anni prima o dopo. Era un giorno di primavera, di questo era sicura. Si ricordava soprattutto che, quando ero uscita dal suo ventre, lei e mio padre si erano chiesti se sarei sopravvissuta. Avevano già perso dieci figli.

Il nome di mia madre mi piace. Suadiqua, “una persona onesta” in pashtu, la nostra lingua. Mia madre era così: onesta, e coraggiosa. La sua vita assomiglia a quella di tutte le donne di qui. Una vita di sottomissione. Orfana, si era sposata a quindici anni. Nella nostra comunità, una donna senza padre e senza un fratello è una donna senza protezione: le serve un marito al più presto. Le avevano trovato mio padre, più grande di lei di quindici anni. Aveva dei terreni e degli animali: pecore, capre, mucche, asini e un cammello. Era uno degli uomini più ricchi del villaggio, uno dei più rispettati. La sua folta barba stava già ingrigendo, svolgeva un ruolo da uomo più anziano e nel tempo libero, quando gli abitanti del villaggio venivano a consultarlo, dirimeva le questioni di vicinato.

Un buon partito. Mia madre se la passava bene. Si era sistemata nella casa dei suoceri: una fattoria in terra battuta ai margini del villaggio, circondata dai mandorli. Nel cortile mio nonno, che non c’era più, aveva costruito un pozzo. La vita ruotava intorno a quell’unica fonte d’acqua, fino a notte. Poi il buio si abbatteva sulla casa come un coperchio stellato, una cappa di piombo. L’elettricità non era mai arrivata nella nostra provincia, più vicina al Pakistan che a Kabul. La vita quotidiana, in fondo, non era cambiata molto nel corso dei secoli.

Tre anni dopo il matrimonio, i miei genitori hanno avuto un figlio, il mio fratello maggiore, che è ancora vivo. Poi, per dieci anni, la maledizione si è abbattuta su di loro. Hanno avuto sette femmine e tre maschi, tra cui due coppie di gemelli. Nessuno è sopravvissuto. L’unica che ha superato con successo l’anno d’età e sconfitto tutte le malattie dell’infanzia è morta annegata sei anni dopo.

Anche mio padre, a suo modo, era un brav’uomo. Gli piaceva rispettare i costumi locali. Uno di questi consisteva nel picchiare la propria moglie. Quando i figli morivano alla nascita, qualche settimana o qualche mese dopo trasferiva il suo dispiacere sulle spalle di mia madre e la pestava.

«Tuo padre è crudele», mi dice lei un giorno in uno dei suoi rari momenti di abbandono e di scoraggiamento. Ho sette anni e non capisco tutto, ma so già che non voglio una vita come quella, una vita come la sua. Mia madre ha perso i suoi genitori quando era ancora una bambina e poi ha perso i suoi figli. La sua vita si riduce alla perdita di chi le è più caro. Non parla molto delle sue sofferenze, il suo destino è subire, tacere; e quando parliamo del passato, spazza l’aria con un gesto della mano: «Giorni infelici… Non guardare mai al passato, vai verso il futuro, cerca di avere una bella vita».

Quando sono nata, mio padre capì subito che sarei vissuta. Aspettò un mese e poi, vedendomi crescere e ingrassare in misura insolita in questa terra povera, pronunciò una frase che cambiò il corso della mia vita: «Tu sarai un maschio, figlia mia». Mia madre non si oppose, anche lei aveva bisogno di un figlio maschio. Mio fratello maggiore aveva già dieci anni, ai miei genitori serviva un altro maschio che aiutasse la famiglia, andasse a fare la spesa, badasse agli animali, lavorasse la terra e facesse tutto quello che un uomo ha il dovere e il diritto di fare. Noi siamo musulmani e pashtun, ci sono delle regole: una donna non può comparire in pubblico da sola, il che limita considerevolmente l’ambito delle sue attività.

A partire da quel momento, unicamente per volontà dei miei genitori, la mia famiglia e i miei vicini dovevano considerarmi come un fratello, dimenticare che ero nata femmina, chiamarmi Hukomkhan, “l’uomo che dà ordini”, e non più con il nome che mi avevano dato alla nascita, Ukmina. Se dei conoscenti passavano da casa nostra portando regali per una bambina, mio padre li rifiutava dicendo: «Questo è mio figlio, non mia figlia». Così diventai Hukomkhan. […]

Nella nostra provincia non c’è niente di strano nel dichiarare che una femmina è un maschio. Al villaggio siamo una quindicina, vestite come i nostri fratelli, in shalwar kameez blu, una tunica lunga con pantaloni. Ci sono Jania e Sakina, Matgullah, Geengatta, Sharkhamatha, Kamala, Mamura. Le famiglie senza figli e senza discendenza hanno il diritto di travestire una delle loro figlie per salvare l’onore. Si dice anche che questo possa allontanare la malasorte dai figli futuri. Malasorte che consiste nell’avere una femmina. Una superstizione che nasconde una ragione molto più pragmatica: vestire una femmina da maschio le permette di aiutare la famiglia, perché può lavorare e portare a casa del denaro. Kamala, per esempio, non ha fratelli, ma ha sei sorelle. È lei che mantiene la famiglia servendo il tè in un chiosco. Chi le sta intorno sa che è una femmina, ma i clienti la prendono per un maschio e non vedono nulla di male nel farsi servire le loro bevande preferite da quel bambino con i capelli nascosti sotto il berretto e che indossa abiti maschili. Se Kamala non fosse vestita così, il proprietario del chiosco non l’avrebbe mai assunta: le ragazze non lavorano, restano a casa! Ovviamente sa che Kamala è una femmina, ma dal momento che è vestita da maschio l’onore è salvo e tutti sono contenti. In fondo è una vecchia tradizione afgana. Tutti conoscono la storia del re Habibullah Khan, che ha regnato dal 1901 al 1919: ha modernizzato il Paese introducendo la medicina occidentale e avviando diverse importanti riforme statali. Nel suo palazzo a Kabul ha avuto un’idea in un certo senso molto moderna: per badare al suo harem, ha scelto una delle figlie e l’ha fatta vestire con abiti maschili. Prima, a vigilare sulle donne dell’emiro c’erano gli eunuchi, uomini evirati e inoffensivi. Ma lui aveva escogitato un sistema nuovo. Cosa c’era di meglio di una donna per sorvegliare altre donne? E cosa c’era di meglio di un vestito da uomo per gestire con autorità le amanti del re? La minore delle sue figlie aveva quindi preso il posto dell’eunuco fino alla morte del padre, ucciso durante una partita di caccia. Si racconta che in seguito si era rifiutata di riprendere gli abiti femminili e che era fuggita nascondendosi dietro un’identità maschile. Nessuno aveva mai più sentito parlare di lei.

Non so se Kamala sia felice di questa situazione. A dire la verità non ha scelta, e ho l’impressione che faccia parte di quelle ragazze che preferiscono tenere i capelli lunghi e mostrare la loro identità, piuttosto che nascondersi e mentire. A me invece tutto questo non crea problemi, al contrario! Nel profondo del mio cuore so che sono un ragazzo e che mi aspetta un destino da uomo. Io non mento.

Un giorno Kamala mi ha spiegato che non dovevo affezionarmi troppo ai miei vestiti da ragazzo: «Quando avremo dieci anni, torneremo a essere delle vere ragazze. Mia cugina serviva il tè qui fino all’anno scorso, ma adesso è troppo grande. Porta il velo e aiuta sua madre in casa. Vedrai, anche tu sarai obbligata a ridiventare Ukmina. Altrimenti Allah ti punirà, e soprattutto i mullah!» Kamala ha ragione. In effetti ho notato che la maggior parte delle femmine lascia gli abiti maschili intorno ai dieci anni, ma conosco una certa Bibi che ha mantenuto l’aspetto di un uomo. Ha l’età di mia madre, lavora al mercato e ha la forza di un uomo. Si dice che abbia ucciso un tizio durante un litigio riguardo a certi terreni.

Quando andiamo al bazar, la guardo con la coda dell’occhio. Mi spaventa, ma mi incuriosisce. Non ho mai osato rivolgerle la parola. Gli abitanti del villaggio chiamano queste donne bakri, una parola che indica le donne senza desiderio, quelle che rinunciano al matrimonio per restare accanto ai genitori. Nessuno qui usa l’espressione bacha posh, un’espressione dari, la lingua di Kabul.

Le bambine come me fanno parte del paesaggio: non esiste un nome o un’etichetta particolare per indicarci. Siamo integrate nella comunità, anche se facciamo una vita diversa. […] A dieci anni però cambia tutto. Maschi e femmine non possono più mischiarsi e mio fratello e mio padre mi proibiscono di unirmi ai ragazzi nei giochi. Non capisco il senso di questa regola improvvisa e mi rifiuto di obbedire. Ma i miei amichetti sanno che sono una femmina. Se continuo a giocare con loro mi denunceranno, perché così facendo li disonorerei.

In compenso, nei pascoli, lontano dal mondo degli adulti, continuano ad accettarmi e a condividere i loro giochi con me. Perciò mi costruisco nell’ambiguità del mio genere. Agli occhi dei miei genitori sono un ragazzo, ma per la società resto una ragazza: devo rispettare alcune regole, in questo caso dei divieti. Siccome indosso abiti maschili, posso uscire da sola per la strada e lavorare nei campi; ma siccome ho il sesso di una donna, non posso avvicinarmi ai maschi. A questa età, le altre ragazze si velano, rinunciano a poco a poco alla shalwar kameez e alla libertà che essa dà loro. Abbandonano i prati e i giochi per entrare in quella che, da quel momento, sarà per sempre la loro vita: i muri di casa. Imparano a cucire, si occupano dei più piccoli, aiutano la madre. Restano pochi mesi prima di abbracciare il loro destino di donne: a dodici anni indossano il burqa e non escono senza la presenza di un uomo.

Vedo crescere il divario tra le due condizioni: l’indipendenza e l’autonomia che accompagnano la condizione maschile, la reclusione e l’alienazione che costituiscono l’esistenza femminile. Nella mia mente di bambina, non vedo nulla di male nell’immaginare un destino diverso rispetto a quello casuale che la mia nascita mi ha dato.

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