“Il messaggio non è stato capito, volevamo comunicare il valore e la costanza del lavoro che c’è per riuscire a produrre il formaggio”. Esce da un consiglio di amministrazione convocato ad hoc per discutere di Renatino e dello spot pubblicitario finito nella bufera, Riccardo Deserti, il direttore generale del Consorzio Parmigiano Reggiano. “La realtà è che nella filiera del nostro prodotto come in altre simili si lavora veramente tutti i giorni dell’anno e c’è una persona che si sveglia ogni mattina”, dice a ilfattoquotidiano.it. “Questo volevamo comunicare, non certo lo sfruttamento sul lavoro che pure nelle campagne come nell’allevamento può essere qualche volta una realtà. Ma voglio dire una cosa: oltre a questa rabbia sui social che periodicamente esplode su qualche tema, i nostri sono davvero mestieri che coinvolgono un fattore personale anche di fatica che serve a produrre qualcosa di cui poi vanno fieri interi territori e comunità”.

Il paradosso dei paradossi rispetto allo spot di “Renatino” è quanto guadagnano in realtà i dipendenti stessi del Consorzio che affilia circa 2.500 allevatori, 320 caseifici per lo più a conduzione famigliare per un giro d’affari nel mondo da 2 miliardi di euro. La struttura di tutela del Dop ogni giorno conta su 67 lavoratori che prendono servizio. A fine anno costano alle casse del Consorzio di Reggio Emilia (e con sedi anche a Modena, Parma e nel Mantovano) 4,6 milioni di euro, oltre a 500mila euro destinati agli amministratori e al management della struttura. Questi i numeri iscritti a bilancio per salari e stipendi. In media significa 65mila euro lordi all’anno per ogni lavoratore, sebbene ci siano ovviamente diversità contrattuali, di inquadramento, full time e part time, anzianità. Ma rimane comunque una cifra importante rispetto al panorama sempre più diffuso delle aziende italiane, anche manifatturiere o agroalimentari. Non tale da arricchirsi ma nemmeno da considerare sfruttamento o salari da fame. Gli stipendi di Parmigiano Reggiano tuttavia vanno interpretati. “Noi offriamo per lo più servizi alle imprese associate – spiega il Dg a proposito di queste cifre – come le analisi di laboratorio sui campioni di latte e quindi abbiamo bisogno di tecnici specializzati ad alte competenze, ma non mi sentirei di fare un paragone fra i loro stipendi e quello che si guadagna nella filiera”.

Ciò che invece colpisce dalla lettura dei documenti societari sono una serie di numeri. Il primo? Il Consorzio spende circa il 70% dei suoi fondi extra gestione ordinaria in pubblicità e marketing, non sempre con successo evidentemente. Nel 2021 ancora non concluso hanno previsto infatti ricavi per 51,9 milioni di euro, in crescita di 10 milioni rispetto al già ottimo dato 2020 che aveva mostrato il mercato salire di circa il 10% grazie anche al prezzo medio del Parmigiano Reggiano invecchiato a 12 mesi, passato dai 7 euro al chilogrammo del primo semestre della pandemia a 10 euro al chilogrammo. Da quei 51,9 milioni bisogna escludere i costi di gestione per il funzionamento delle struttura (14,5 milioni di euro). Avanzano 37,4 milioni con i quali finanziare i vari “programmi consortili” di supporto agli associati, ricerca, investimenti, sviluppo e – certo – anche marketing. Quest’ultima voce si prende ben 21 milioni di euro, circa il 70% del totale, che vengono spesi in “investimenti in marketing e comunicazione per lo sviluppo della domanda in Italia ed all’estero” si legge nella relazione sull’esercizio. Cinque milioni vengono invece destinati al programma “Premium 40 mesi”, il progetto presentato a fine 2019 al Museo Ferrari di Maranello per “promuovere lo sviluppo di un nuovo segmento di mercato sempre più richiesto dal consumatore: la lunga stagionatura 40 mesi”. Tradotto: il prodotto di alta gamma.

Ai consorziati e agli animali vanno invece le cifre più basse di quei fondi: 3,5 milioni per il Bando 2021 a sostegno dei progetti di miglioramento del benessere animale e delle condizioni dentro gli allevamenti e solo 2,5 milioni a sostegno degli investimenti – sempre tramite bando – in attrezzature per i centri di raccolta latte. Insomma, meglio la pubblicità che la produzione? Sì ma c’è un motivo tecnico, avverte il dg Deserti. “Nel 2014 il Consorzio spendeva “solo” 10 milioni in comunicazione pubblicitaria ma poi è entrata in vigore una diversa normativa”. Quell’anno sono entrati in vigore per decisione europea i cosiddetti Piani di Regolazione dell’Offerta per quanto riguarda le Denominazioni di Origine Protetta.

Si basano sul fatto che molti associati durante le congiunture positive di prezzo (come l’anno scorso) vogliono aumentare a tutti i costi i volumi di produzione per massimizzare i ricavi. Il che ovviamente fa sì che poi il prezzo scenda magari in picchiata. Per le Dop allora è sì possibile aumentare i litri di latte a patto che chi lo fa versi dei contributi aggiuntivi al Consorzio e che queste vadano investite in marketing per aumentare a propria volta le quote di mercato in giro per il mondo e smerciare dunque il prodotto in surplus senza impattare troppo sui conti. Una forma di “stabilizzazione” del prezzo finale per evitare di essere in balia dei cicli economici. È quello che è successo in pandemia, tanto che anche quest’anno si sta confermando il trend positivo di Parmigiano Reggiano sebbene non trainato dalla domanda interna ma dall’export. Per dirla con una battuta: Renatino deve ringraziare l’Europa.

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