I tedeschi hanno sempre un’aura di serietà, solidità, professionalità – anche (o forse soprattutto) in fatto di politica. Certo, agli occhi di un italiano non potrebbe essere altrimenti: dal 1982 ad oggi hanno avuto in totale tre cancellieri (2 della Cdu per un totale di 31 anni, uno della Spd per 7 anni) e undici governi, mentre nello stesso periodo in Italia si sono susseguiti diciotto primi ministri (senza contare quelli che hanno fatto il bis) e ventotto governi (in media, ogni cancelliere tedesco ha stretto la mano a più di sei primi ministri italiani a capo di più di nove governi diversi). Seppur anche la campagna elettorale si svolga tradizionalmente secondo modalità più istituzionali e serie di quelle a cui siamo abituati in Italia, quest’anno non sono mancati alcuni episodi “singolari” (uso un termine neutro), che restituiscono un’immagine insolita di una parte di paese. Mi limito ad analizzare un caso in particolare.

“Uccidere i nazisti”

Die Partei (letteralmente “il partito”) è un partito politico fondato nel 2004 dall’allora direttore della rivista satirica Titanic (quella che pubblicò in copertina Papa Ratzinger con la toga macchiata di urina sotto il titolo “Vatileaks”) che sostiene ideali genericamente antifascisti, ambientalisti ed europeisti, utilizzando uno stile di comunicazione apertamente satirico. Attualmente ha un deputato al Bundestag e uno al Parlamento Europeo.

Il 3 settembre 2021 il sindaco della cittadina di Plauen, in Sassonia, ordina la rimozione di due tipi di manifesti elettorali affissi da Die Partei in giro per la città. Il motivo? Il primo recita “Nazis töten”, che significa “i nazisti uccidono”, ma anche “uccidere i nazisti”. Il secondo invece dice “Feminismus, ihr Fotzen!”, ovvero “Femminismo, stronzi!”, dove tuttavia “Fotzen” è un epiteto volgare per l’organo sessuale femminile, e infatti sul manifesto è raffigurato anche un tampone.

Die Partei naturalmente impugna l’ordinanza del sindaco e il tribunale amministrativo di Chemnitz gli dà ragione: l’affermazione che “i nazisti uccidono” rappresenta l’espressione di un’opinione (peraltro suffragata da prove) lecita e tutelata dall’art. 5 della Costituzione (libertà d’opinione). Il doppio senso, per cui vi si può leggere anche l’esortazione a “uccidere i nazisti” è oggettivamente irrilevante, in quanto per costante giurisprudenza della Corte Costituzionale, un’espressione plurivoca può essere cassata solo se tutti i possibili significati leciti sono stati previamente esclusi. Quanto al secondo manifesto, pur utilizzando un linguaggio greve, esso non rappresenta un pericolo per l’ordine pubblico, poiché non idoneo a offendere singoli o gruppi di persone identificabili, tanto più che il termine “Fotze” viene utilizzato in senso provocatorio in contesti culturali, artistici e Lgbt+.

“Appendere i verdi”

Pochi giorni dopo il sindaco di Zwickau (siamo sempre in Sassonia), città tristemente nota per essere stata base del trio di terroristi neonazisti Uwe Böhnhardt, Uwe Mundlos e Beate Zschäpe, deve fare i conti con un altro partito: si chiama Der III. Weg (ovvero “La terza via”) e se fosse permesso utilizzare la svastica come simbolo lo farebbe. È formato da gente che propugna idee razziali, considera Adolf Hitler un grande statista e aspira a diventare una “élite neonazista”. Aggiungiamo pure che l’Ufficio Federale per la Tutela dell’ordinamento Costituzionale (una sorta di equivalente dell’Aisi ex-Sisde) considera i suoi membri “altamente inclini alla violenza”.

Insomma, questi gentiluomini tappezzano la città di manifesti su sfondo verde (è il colore del partito) che recitano “Hängt die Grünen!”, ovvero “appendete i verdi” a caratteri cubitali. Sotto, in piccolo, segue una didascalia dalla quale si può dedurre che i “verdi” in questione sono proprio i loro manifesti: un’esortazione ad appenderli un po’ dappertutto. Peccato che “hängt” significhi anche “impiccate”, sicché lo slogan può essere anche interpretato come “Impiccate i Verdi”, intesi come sostenitori del partito dei Verdi guidato da Annalena Baerbock, secondo gli ultimi sondaggi al secondo-terzo posto su base nazionale.

I neonazisti impugnano l’ordinanza del sindaco e i giudici del tribunale amministrativo di Chemnitz (sempre loro) ribadiscono il ragionamento già fatto in merito a Die Partei: sì, il doppio senso c’è, però la didascalia chiarisce che il senso principale (lecito) è quello riferito all’affissione dei manifesti verdi. Nessuno prenderebbe mai sul serio una simile istigazione a delinquere. Ad ogni modo, siccome proprio convinti evidentemente non lo sono neanche loro, s’inventano una soluzione degna della Democrazia cristiana degli anni d’oro: i manifesti possono restare, ma devono mantenersi a 100 metri di distanza da quelli del partito dei Verdi, per evitare che il pubblico possa – malauguratamente! – metterli in collegamento e provvedere a impiccare il primo Verde che passa di lì. Insomma, il distanziamento sociale applicato ai manifesti elettorali.

Davanti a una simile decisione i Verdi ci vedono ancora più verde e ricorrono in appello, dove il tribunale amministrativo di secondo grado della Sassonia decide: anzitutto, la didascalia “esplicativa” è talmente piccola che è come se non ci fosse. Un passante non la percepisce ma vede solo lo slogan. In più, “i Verdi” è un’espressione corrente per indicare i sostenitori dell’omonimo partito, non certo dei “manifesti verdi”: quindi il messaggio è chiaramente “Impiccate i Verdi!”. A questo punto, è irrilevante appurare se l’istigazione a delinquere sia sufficientemente seria e pertanto punibile, perché c’è un altro reato: l’istigazione delle masse (“Volksverhetzung”) all’odio nei confronti di una parte della popolazione, reato che richiede un pericolo (astratto) di turbativa dell’ordine pubblico e una violazione della dignità umana (non basta un – anche grave – danno alla reputazione). Sussistendo entrambi gli elementi, i manifesti vanno rimossi.

Due pesi, due misure?

Viene spontaneo pensarlo, soprattutto in un’epoca storica in cui la tendenza a equiparare indistintamente estremismi di destra e di sinistra e a praticare del revisionismo storico da quattro soldi è più che mai all’ordine del giorno. E invece queste vicende giudiziarie parallele ci dimostrano proprio il contrario: da un lato, che la libertà d’opinione (specie nell’agone politico) è un bene sacro, che può essere limitato solo in presenza di ragioni molto serie (ad esempio determinati reati) e non invece per generici danni alla reputazione, né tantomeno per ragioni di “gusto”. Dall’altro, che il nostro ordinamento costituzionale liberale vive e sopravvive grazie ai distinguo, grazie alla minuziosa e faticosa analisi di questioni solo apparentemente simili, e tuttavia radicalmente diverse. A fare di tutta l’erba un fascio si finisce inevitabilmente per perdere l’erba, e tenersi il Fascio.

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