Come Julian Assange è arrivato a svelare al mondo documenti inaccessibili e perché le ‘buone regole’ seguite dal fondatore di Wikileaks dovrebbero essere un caposaldo del rapporto tra i giornalisti e le loro fonti. Lo racconta Stefania Maurizi – collaboratrice de Il Fatto Quotidiano che ha seguito il caso di Assange fin dall’inizio – in questo estratto del suo libro “Il Potere Segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e WikiLeaks”, edito da Chiarelettere, con prefazione di Ken Loach.

Una fonte a rischio

Tutto era iniziato nel 2008, quando una mia fonte aveva smesso di parlare con me perché convinta di essere intercettata illegalmente.

Chi contatta noi giornalisti per raccontarci in modo confidenziale qualcosa di scottante – che qualcuno che conta vorrebbe tener nascosto – lo fa solo se ha fiducia nel fatto che non verrà scoperto e quindi non andrà incontro a gravi conseguenze, come il licenziamento dal posto di lavoro, cause legali devastanti o, in casi estremi, la prigione o la morte. La mia fonte aveva avuto il coraggio di cercarmi, ma dopo i primi incontri le sue preoccupazioni avevano prevalso.

L’avevo aspettata a lungo per quello che sarebbe stato il nostro ultimo appuntamento. Alla fine avevo capito che non si sarebbe presentata e non ce ne sarebbe stato un altro. Non avevo modo di verificare se fosse davvero intercettata illegalmente o se fosse soltanto una sua paranoia, ma per fortuna presi molto sul serio le sue preoccupazioni.

Nel corso degli anni avevo parlato con decine di fonti giornalistiche: alcune mi avevano dato brandelli di informazioni utili, altre mi avevano solo fatto perdere tempo, altre ancora mi avevano permesso di arrivare a scoop notevoli. Ma nessuna aveva mai inciso tanto profondamente nella mia vita e nella mia professione come lei. Quella fonte, che non volle mai rivelarmi una sola parola di ciò che sapeva, cambiò per sempre il mio lavoro.

Fu in quel momento, infatti, che mi resi conto di dover trovare una soluzione per comunicare in modo molto più sicuro. Le vecchie tecniche, che purtroppo si usano ancora oggi in tutte le redazioni, erano e sono completamente superate: risultano del tutto inadeguate a un mondo in cui forze di polizia, spie assoldate da grandi aziende e servizi segreti possono ascoltare con facilità impressionante noi giornalisti e tutte le persone che parlano con noi per rivelarci qualcosa di importante.

Se avessi studiato diritto, avrei cercato protezione nelle leggi, ma ho studiato matematica e così per me fu naturale guardare a codici cifrati e password per una possibile soluzione. All’università avevo imparato un po’ di crittografia. Ne avevo una conoscenza solo teorica, ma quell’arte di proteggere le comunicazioni tra due persone, in modo che non siano accessibili a tutti indiscriminatamente, mi aveva intrigato.

Come aveva scritto Philip Zimmermann, l’inventore del programma PGP (Pretty Good Privacy) per criptare email e documenti, «che tu stia pianificando una campagna politica, discutendo delle tue tasse o intrattenendo una relazione sentimentale segreta, che tu stia comunicando con un dissidente politico in un paese autoritario o facendo altro, non vuoi che le tue email o i tuoi documenti privati siano letti da nessuno. Non c’è nulla di sbagliato nell’affermare il proprio diritto alla privacy».

Non solo non c’è nulla di sbagliato, ma per noi giornalisti e le nostre fonti è un diritto fondamentale: se non garantiamo protezione a chi parla con noi in modo confidenziale, nessuno ci fornirà più informazioni.

Nel vecchio mondo analogico, quello precedente l’era digitale, gli apparati dello Stato, dalle forze di polizia ai servizi segreti, potevano aprire le lettere con il vapore per leggere la corrispondenza dei cittadini o ascoltare e trascrivere le telefonate una per una, ma erano soluzioni che richiedevano tempo, non potevano essere usate in modo sistematico su intere popolazioni. Le comunicazioni digitali, invece, hanno cambiato tutto: ora sorvegliare segretamente la corrispondenza via email di milioni di persone è diventato un gioco da ragazzi.

Proprio questa trasformazione aveva spinto l’americano Philip Zimmermann, ingegnere informatico e pacifista, a creare il suo programma PGP. Aveva visto arrivare fin dall’inizio un rischio per la democrazia.

Le sue preoccupazioni possono essere riassunte in questa testimonianza davanti a una commissione del Senato statunitense nel 1996: «Alcuni nel governo sembrano intenzionati a adottare e consolidare un’infrastruttura per le comunicazioni che neghi ai cittadini la capacità di proteggere la loro privacy. Questo è inquietante, perché in democrazia può succedere che di tanto in tanto vengano elette delle brutte persone, a volte anche bruttissime. Normalmente una democrazia che funzioni ha il modo di rimuoverle dal potere, ma un’infrastruttura tecnologica sbagliata potrebbe in futuro permettere a un governo di sorvegliare ogni mossa di chi gli si oppone. E quello potrebbe benissimo essere l’ultimo governo che eleggiamo». Zimmermann non era un radicale, era un pacifista che credeva nel dissenso politico tanto da essere stato arrestato per le sue proteste pacifiche contro le armi nucleari. Una volta intravista questa minaccia per la democrazia, fece un atto di disobbedienza civile: proprio mentre il Senato americano cercava di far passare la Senate Bill 266 – una proposta di legge che permetteva al governo di accedere alle comunicazioni di chiunque – creò un software per cifrare le email, PGP, e lo distribuì in modo completamente gratuito affinché si diffondesse il più possibile, prima che il governo potesse rendere illegale la crittografia.

Fu una rivoluzione: come ha raccontato Zimmermann stesso, prima di PGP non era possibile per il cittadino ordinario comunicare a lunga distanza con qualcuno in modo sicuro, senza andare incontro al rischio di essere intercettato. Questo potere era saldamente ed esclusivamente nelle mani dello Stato. Con PGP questo monopolio finì. Era il 1991.

Il governo degli Stati Uniti, però, non stette a guardare: mise sotto inchiesta Zimmermann, ma alla fine, nel 1996, chiuse le indagini senza alcuna incriminazione. Da Amnesty International fino agli attivisti politici in America Latina e nella ex Unione Sovietica, PGP iniziò a diffondersi in tutto il mondo, generando un cruciale dibattito sulle libertà civili e sulla sorveglianza, e ispirando la creazione di altri tipi di software per criptare le comunicazioni.

Quel giorno che il mio appuntamento saltò per me fu decisivo: se codici e password proteggevano gli attivisti, potevano proteggere anche noi giornalisti e chi parlava con noi. Fu una mia fonte nel mondo della crittografia a mettere per la prima volta sul mio schermo radar Julian Assange e WikiLeaks nel 2008, quando li conoscevano in pochissimi perché non avevano ancora pubblicato i grandi scoop giornalistici che li hanno poi resi famosi in tutto il mondo. «You should have a look on that bunch of lunatics», «Dovresti dare uno sguardo a quella banda di matti» mi disse l’esperto. I lunatics erano Assange e il suo team di WikiLeaks: il mio amico crittografo li chiamava così con tono scherzoso, ma dimostrava di averne considerazione. E se uno con le sue competenze e la sua dedizione ai diritti umani si interessava a loro, voleva dire che stavano facendo qualcosa meritevole di attenzione.

Cominciai a osservare con sistematicità il lavoro di WikiLeaks, che era proprio agli albori, perché era stata creata nel 2006. L’idea era rivoluzionaria: sfruttare la potenza della rete e della crittografia per ottenere e «far filtrare» – in inglese to leak, da cui il nome WikiLeaks – documenti riservati di grande interesse pubblico. Proprio come i media tradizionali ricevono informazioni da sconosciuti che mandano alle redazioni lettere o pacchi di documenti, così Assange e la sua organizzazione ricevevano file scottanti, inviati in forma elettronica alla loro piattaforma online da fonti anonime. La protezione di chi condivideva documentazione delicata era garantita da soluzioni tecnologiche avanzate, come la crittografia, e da altre tecniche ingegnose.

Nel 2006, quando WikiLeaks era stata fondata, non esisteva un solo grande giornale al mondo che offrisse alle sue fonti una protezione basata sistematicamente sulla crittografia: ci sono voluti anni prima che il più influente quotidiano del mondo, il «New York Times», e altri grandi media si decidessero a adottarla, rifacendosi all’intuizione di WikiLeaks.

Julian Assange e la sua organizzazione erano senza dubbio dei pionieri. Erano particolarmente interessati ai whistleblower, persone che, lavorando all’interno di un governo o di aziende private, e venendo a conoscenza di abusi, gravi atti di corruzione o addirittura crimini di guerra e torture commessi dai loro superiori e colleghi, decidono di denunciarli nel pubblico interesse, fornendo ai giornalisti informazioni fattuali. Il whistleblower è un individuo che agisce secondo coscienza. Non si volta dall’altra parte facendo finta di non vedere. Denuncia pur sapendo di andare incontro a ritorsioni anche gravi, in alcuni casi perfino letali, perché, per esempio, chi rivela i crimini dei servizi segreti rischia letteralmente la testa e, spesso, può contare su due uniche forme di protezione: nascondersi dietro l’anonimato oppure fare l’opposto, ovvero uscire allo scoperto e sperare nel sostegno dell’opinione pubblica.

Sfruttando la potenza della rete e della crittografia, WikiLeaks offriva soluzioni tecniche avanzate per proteggere i whistleblower. Queste non solo fornivano uno scudo a chi denunciava nel pubblico interesse, ma attiravano anche fonti con talenti ed esperienze professionali particolari, che avevano potenzialmente accesso a informazioni importanti. Perché, alla fine, chi apprezzava uno strumento così complesso e poco diffuso com’era la crittografia in quegli anni? Chi l’aveva studiata, o chi lavorava nel mondo del software o dell’intelligence. L’impostazione tecnologicamente avanzata di WikiLeaks la rendeva appetibile a tutta una comunità che parlava il linguaggio della scienza e della tecnologia.

I risultati arrivarono presto e, quando iniziai a osservarli assiduamente dall’esterno, in quel lontano 2008, ne rimasi profondamente colpita.

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