Pyae Lyan Aung, il secondo portiere della nazionale di calcio della Birmania, ha chiesto asilo politico al Giappone per aver manifestato apertamente il suo dissenso nei confronti del golpe militare avvenuto nel suo Stato lo scorso febbraio. Il 28 maggio, il calciatore era volato a Chibam nel sud est del paese, per giocare una partita de qualificazione della Coppa del Mondo con la nazionale, e il suo gesto di protesta – le tre dita alzate durante l’inno nazionale per unirsi simbolicamente alla contestazione – potrebbero avergli cambiato la vita. In queste ore ha chiesto alle autorità di Tokyo la possibilità di ottenere l’asilo politico, che molto probabilmente gli verrà concesso.

“Se torno in Birmania, la mia vita è a rischio”, ha detto il giovane calciatore, spiegando che la sua famiglia ha già ricevuto una visita dei militari dopo il gesto di protesta. Così, già in quelle ore il calciatore aveva iniziato a valutare la possibilità di non rientrare nel suo paese di origine. Alla fine l’ha comunicata proprio dall’aeroporto di Osaka, all’ufficio immigrazione, poche ore prima dell’imbarco e rifacendo il gesto di protesta come nel film The Hunger Games.

Dal governo giapponese hanno fatto intendere che le possibilità che la sua richiesta di asilo venga accolta sono reali. Lo stesso Pyae Lyan Aung ha poi detto di voler tornare nel suo Paese solo se sarà rimessa in libertà Aung San Suu Kyi, la leader dell’opposizione al governo birmano il cui processo per il suo attivismo politico è iniziato lo scorso lunedì 14 giugno. Una speranza vana, dato il fatto che le accuse che sono state rivolte alla donna potrebbero costarle anni di carcere e di sicuro l’interdizione dalla politica. “Se sono in pericolo, tornerò in Birmania per essere arrestato“, ha detto ancora Pyae Lyan Aung. Visti i mezzi utilizzati finora dai militari birmani per stroncare una protesta che rimane ancora viva dopo quattro mesi, non si fatica a credergli.

Il favore del governo giapponese potrebbe anche essere letto in chiave geopolitica. Tradizionalmente, Tokyo è il più generoso fornitore di assistenza economica alla Birmania, ma il colpo di stato dello scorso febbraio ha raffreddato i rapporti tra le nazioni. In particolare, il Giappone ha congelato gli aiuti alla Birmania, e il ministro degli Esteri nipponico ha minacciato di fermare anche i progetti già esistenti se l’esercito birmano continuerà a reprimere le proteste con la violenza. Finora nel Paese si contano almeno 865 morti e quasi 5mila arrestati, con testimonianze multiple di torture in carcere e perlustrazioni casa per casa.

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