Iniziò come molte altre guerre e rivoluzioni: con una piccola scintilla che ha provocato l’ennesimo ingovernabile incendio in Medio Oriente. Una scintilla come ce ne erano state già tante in Siria, dopo 40 anni di repressione da parte della dinastia degli al-Assad. Con il Nord Africa già sceso in piazza in Tunisia, Egitto e Libia e con i primi moti nel vicino Iraq, anche qui, nel marzo 2011, esplodono le proteste dopo l’arresto e le torture della polizia nei confronti di un gruppo di ragazzi colpevoli di essere gli autori di graffiti antigovernativi a Dar’a, nell’estremo sud del Paese. Le manifestazioni e gli scontri di piazza, sospinti dall’insofferenza della popolazione per la crisi economica che attanagliava il Paese, unita alla repressione, agli arresti arbitrari e alla tortura sistematica all’interno di quei buchi neri del regime che sono le carceri di Bashar al-Assad, si trasformano presto in guerra civile, con il regime che mette in campo tutta la sua forza militare e sguinzaglia i suoi servizi segreti per placare sul nascere qualsiasi istinto di ribellione. Proprio questa violenza che caratterizza la guerra civile siriana sarà anche l’ingrediente che la snaturerà quasi da subito, trasformandola da un moto anti-governativo in un conflitto armato che travolgerà tutte le aree del Paese.

Nell’estate dello stesso anno, i numerosi gruppi ribelli si uniranno sotto il cappello del Free Syrian Army che, finanziato e armato anche grazie all’aiuto degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Turchia, continua a guadagnare terreno puntando verso Damasco, nel tentativo di far cadere la dittatura. Un piano portato avanti nonostante i bombardamenti dell’aviazione governativa che non hanno risparmiato le città controllate dai ribelli, arrivando anche all’impiego di armi chimiche contro la popolazione. Ma ci sono due elementi che hanno stravolto le sorti del conflitto: l’intervento dell’Iran, degli Hezbollah libanesi e, soprattutto, della Russia (nel 2015) per salvaguardare il potere dell’alleato Assad e la rapida contaminazione del Free Syrian Army ad opera dei gruppi islamisti. Così, le armi e i soldi forniti dall’amministrazione Obama ai ribelli, 500 milioni di dollari secondo i dati forniti dalla Difesa di Washington, finiscono in parte in mano a formazioni jihadiste e persino all’allora Jabhat al-Nusra, il braccio di al-Qaeda nel Paese guidato da Abu Muhammad al-Jawlani e dal quale, alla fine del 2013, si staccherà quello che si è guadagnato, a suon di attentati, esecuzioni, torture, una spiccata furia iconoclasta e decine di altri crimini contro l’umanità, un ruolo da protagonista nel conflitto siriano: lo Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi.

È passato meno di un anno da quei graffiti, dalla volontà di rovesciare un regime sanguinario sempre più oppressivo. La rivoluzione siriana ha già fallito e si è trasformata in una lotta sanguinosa tra i numerosi gruppi terroristici che hanno oscurato le aspirazioni dell’originario Free Syrian Army, il regime e i suoi sostenitori e, qualche anno più tardi, la coalizione occidentale che ha trovato in Siria e Iraq il nuovo campo dove combattere la lotta al terrorismo che lei stessa ha contribuito ad alimentare nella fase iniziale della rivoluzione. Un nuovo, imprevedibile, punto di svolta si ha il 29 giugno 2014, quando al-Baghdadi si autoproclama Califfo del neonato Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, durante il celebre discorso tenuto nella moschea al-Nuri di Mosul. Da lì, le aspirazioni, anche occidentali, di rovesciare il regime degli Assad devono inevitabilmente riorientarsi verso la lotta allo Stato Islamico, con l’aiuto sul campo delle Forze Democratiche Siriane a maggioranza curda oppresse dalle bandiere nere. L’obiettivo è distruggere questa nuova entità territoriale senza precedenti, per caratteristiche, nella storia moderna e che, all’apice della sua ascesa, si estendeva su una superficie pari a quella della Gran Bretagna.

Dopo anni di raid aerei, battaglie sanguinose condotte quartiere per quartiere, casa per casa, secondo un recente rapporto dell’Osservatorio Siriano sui Diritti Umani il numero di vittime totali si aggira intorno alle 600mila in dieci anni. A queste si devono aggiungere le migliaia di siriani in fuga dal conflitto che hanno perso la vita durante i gelidi inverni lungo la rotta balcanica o in uno delle centinaia di naufragi nel Mediterraneo, oltre ai milioni di rifugiati interni, nei Paesi limitrofi e in Europa.

È questa l’eredità del conflitto siriano: polvere, macerie, morti, civili in fuga e un’instabilità di cui il Paese non si libererà nel prossimo futuro. A dieci anni da quei graffiti, il potere degli Assad a Damasco, in pericolo fino alla fine del 2015, quando Mosca scese in campo iniziando a bombardare le postazioni ribelli e dei jihadisti, non sembra più essere in discussione. Il Califfato è morto, ma lo Stato Islamico e la sua ideologia sono ancora ben radicati nel territorio e possono contare sulle numerose cellule dormienti sparse per il Paese e su un bagaglio di adepti chiusi nelle carceri curde o nei campi profughi per le ‘famiglie del jihad’ di cui ancora non si conosce il destino. Gli altri gruppi islamisti continuano ad operare, soprattutto nel Nord, dove la campagna militare anti-curda portata avanti dalla Turchia, grazie anche al voltafaccia statunitense nell’era Trump, ha attinto da queste formazioni arruolando tagliagole che hanno seminato violenza e terrore ad Afrin, Serekaniye e altri territori del Rojava curdo.

La rivoluzione siriana è fallita perché i problemi che l’hanno generata sono ancora tutti lì e, anzi, si sono acutizzati. La crisi economica che attanagliava il Paese si è aggravata, dopo dieci anni di guerra e centinaia di migliaia di morti. Il terrorismo è ancora la prima minaccia alla sicurezza del Paese, mentre gli Stati Uniti e la cosiddetta coalizione occidentale hanno mollato la presa, sotto la spinta dell’America First trumpiano, abbandonando il Paese al gioco di potere tra la cosiddetta Mezzaluna Sciita e le aspirazioni espansionistiche del presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, che nel corso di questi dieci anni ha dimostrato di essere disposto a tutto pur di allargare la sua sfera d’influenza nell’area. La pandemia di coronavirus ha ulteriormente affievolito l’interesse di Usa ed Europa per le sorti del popolo siriano, con i colloqui di pace, che il 1 dicembre hanno conosciuto l’inizio di una nuova fase a Ginevra, mediata dalle Nazioni Unite, per la modifica alla Costituzione del Paese, che procedono a rilento. Una speranza per dare il cambio di passo risiede oggi nella nuova amministrazione americana guidata da Joe Biden che si insedierà il 20 gennaio con l’intento, almeno dalle anticipazioni, di dare inizio a una nuova strategia globale americana. Con l’obiettivo di mettere il prima possibile la parola fine sulla storia di una rivoluzione tradita.

Twitter: @GianniRosini

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