Il lotto non consegnato alla Regione Lombardia dalla Dama spa di 25mila pezzi, sequestrati ieri dalla sede dell’azienda del cognato di Attilio Fontana, è frutto di “un preordinato inadempimento” contrattuale “per effetto di un accordo retrostante” tra la Regione Lombardia e l’imprenditore Andrea Dini. È quanto scrivono i pm che indagano sul “caso camici” sul decreto di perquisizione che martedì sera ha portato la Gdf a sequestrare proprio quei 25 mila camici, come anticipato dal Corriere della Sera. A dimostrarlo un messaggio inviato due ore prima dell’offerta del cognato del governatore di trasformare la fornitura in parziale donazione, alle 8,58 del 20 maggio scorso, a Emanuela Crivellaro, fondatrice e presidente della “Ponte del sorriso”, onlus varesina che durante l’emergenza si è occupata di raccogliere dalle aziende della zona dispositivi di protezione da donare agli ospedali. “Ciao, abbiamo ricevuto una bella partita di tessuto per camici. Li vendiamo a 9 euro, e poi ogni 1000 venduti ne posso donare 100″, scriveva Dini. Che subito vedeva arrivare una risposta di Crivellaro: un ringraziamento caloroso e con la rassicurazione di aver inviato un “messaggio” al responsabile dell’Unità valutazione acquisti e donazioni della Asst Settelaghi in quanto “avrà bisogno di un preventivo”.

Dalla onlus, però, arriva una precisazione. Fonti hanno fatto sapere all’Ansa che quel messaggio, ora agli atti della Procura, non si riferiva a una vendita diretta, ma era solo “una comunicazione generica” da parte di Dini e “non un invito a comprarli”. Secondo la ricostruzione dei pm, comunque, questa è la dimostrazione che Dini aveva intenzione di rivendere i camici, senza poi riuscirci, per rientrare del mancato introito dopo il contratto finito in donazione con la Regione, visto il conflitto di interessi per essere parente stretto del presidente. E a dimostrarlo, ribadiscono, è anche “la scansione cronologica di fatti”. La richiesta di trasformare in donazione una parte della fornitura pattuita dei camici, 49mila dei 75mila dispositivi inizialmente dati con affidamento diretto per un valore di 513.000 euro e 7000 set sanitari già consegnati fino ad allora, arriva infatti solo alle 11,07 del 20 maggio con una mail ad Aria spa: “Come anticipato per le vie brevi, la presente per comunicare che abbiamo deciso di trasformare il contratto di fornitura in donazione. Certi che apprezzerete la nostra decisione, vi informiamo che consideriamo conclusa la nostra fornitura”. E cioè due ore dopo la messa a disposizione di pezzi per la onlus varesina. Secondo l’accusa, inoltre, questo significa che il cognato di Fontana già “offriva in vendita” all’interlocutrice “i camici non consegnati ad Aria spa” ancora prima di proporre alla Regione la donazione e, quindi, senza sapere se sarebbe stata accettata. Di conseguenza, sottolinea il Corriere, Dini doveva essere già “sicuro, per sottostanti accordi con qualcuno in Regione, di poter contare sul fatto che la Regione non pretendesse più i 25.000 camici restanti”. L’ipotesi ora al vaglio degli inquirenti è che quando quel 20 maggio la “fornitura” è stata trasformata in “donazione”, la cosa non sia stata una “scelta generosa” di Dini ma “un trucco pianificato sulla scorta di ‘una rassicurazione ottenuta per il tramite di un accordo stabilito altrove'”

Dal decreto perquisizione emerge anche quanto già dichiarato da Crivellaro il 18 giugno, e cioè che in aprile Dini le aveva detto “di dover vendere alla Regione” in forza di “un contratto in via esclusiva”. “Il 9 aprile ho scritto a Dini che l’ospedale non aveva più camici e lui mi ha risposto ‘domani 500’, ma il giorno dopo ce ne fece avere solo 300 e già in quella occasione mi disse che era in trattativa con la Regione Lombardia”, si legge nel verbale della deposizione. “Io ho cercato di ottenere altri camici ma lui mi ha detto che non ne aveva più perché li doveva vendere alla Regione, aggiungendo che il contratto con la società di Regione Lombardia era in esclusiva“, aggiunge, rispondendo alla domanda dei pm se successivamente avesse avuto ulteriori colloqui con Dini. La donna ha anche aggiunto: “Quando ho visto la trasmissione Report ho capito che stavano cercando di camuffare la vicenda come donazione anche perché io sapevo perfettamente (…) che lui (Dini, ndr.) si era occupato di tutto (certificazioni, recupero dei tessuti, e contratto con la società della Regione Lombardia”, ovvero Aria spa.

Ma non solo, sempre dal decreto di sequestro, emerge anche che risale al 5 giugno scorso il parere con cui l’ufficio legale di Aria spa ha bloccato la conversione del contratto di fornitura di 75 mila camici in parziale donazione da parte della Dama Spa. Come si legge nell’atto firmato dai pm Filipppini, Scalas e Furno, quel giorno di giugno attorno alle 11.30, il responsabile dell’ufficio legale di Aria inviò una comunicazione a Carmen Schweigl, il rup della procedura, e per conoscenza, tra gli altri al dg dimissionario Filippo Bongiovanni (entrambi indagati) con “le obiezioni in ordine alla bozza di determina a firma” del dg “con la quale si era proceduto a recepire la proposta parziale di conversione in donazione e di interruzione della ulteriore fornitura contrattualmente prevista”.

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