La distanza percorsa in bici, il valore della merce consegnata, il maltempo, l’orario e il giorno della settimana. Non contava nulla per Abou, Bayo, Soulemane ed altri 750 rider, spesso migranti e richiedenti asilo reclutati in situazioni di “emarginazione sociale”: la loro paga era sempre di 3 euro a consegna. Le mance inserite dai clienti sulla app al momento della prenotazione? Mai viste, scomparse, trattenute. E quando qualcuno si lamentava veniva minacciato, bloccato, costretto a non lavorare. E Uber Italy era “pienamente consapevole”, ritengono i giudici del Tribunale di Milano, delle condizioni di sfruttamento e ha svolto una “attività agevolatrice”, motivo per cui è stata commissariata per un anno.

La gestione appaltata a terzi – La vita di decine di rider riassunta nel provvedimento della Sezione di Misure di Prevenzione del Tribunale di Milano firmato dal presidente Fabio Roia e dai giudici Veronica Tallarida e Ilario Pontani è uno spaccato di miseria e sopraffazione accettata da chi vive in “forte isolamento sociale” ed è disposto “a tutto per avere i soldi per sopravvivere”. Una situazione di cui avrebbe approfittato la società Flash Road City di Giuseppe Montini – indagato con altre persone in un procedimento penale connesso che ha già portato a perquisizioni e al sequestro di oltre 500mila euro in contanti – che aveva ricevuto da Uber (cinque i suoi dipendenti indagati) l’incarico di reclutare i ciclofattorini e oltre 3 milioni di euro.

La recluta e il lavoro – A ricostruire lo sfruttamento e la consapevolezza dei vertici Uber riguardo alle condizioni di lavoro ci sono le testimonianze dei ciclofattorini e le intercettazioni telefoniche riassunte nelle 60 pagine del provvedimento richiesto dalla procuratrice aggiunta Alessandra Dolci e dal pm Paolo Storari. Il reclutamento avveniva nel quartier generale della Flash Road City in zona Lorenteggio a Milano. “Abbiamo percepito sempre e solo 3 euro a consegna”, hanno raccontato decine di rider ai pubblici ministeri della procura di Milano. “Se non si rispettavano le sue indicazioni mi bloccava l’account”, ha spiegato agli inquirenti un altro rider, “buona parte dei quali”, si legge nel decreto, “proveniva da zone conflittuali del pianeta” e la “cui vulnerabilità è segnata da anni di guerre e povertà alimentare e lontananza dai propri familiari”. Anche per questo erano disposti “ad essere pagati poco e male”. Condizioni “avvilenti”, secondo i magistrati. Per dire: la Flash Road City tratteneva 50 centesimi, a titolo di “penale”, per le consegne cancellate o per tassi bassi di accettazione delle stesse portando i fattorini a “turni di lavoro massacranti” per “accettare il maggior numero di consegne possibili” così da non vedersi negare almeno i 3 euro “promessi”.

Le mance negate minacce a chi si ribellava – Ai rider, stando all’inchiesta che portato al commissariamento di Uber, Flash Road City negava anche le mance inserite dai clienti al momento della prenotazione tramite la app. “Se il cliente me le consegnava in contanti direttamente in fase di consegna – ha riferito uno dei rider – quelle erano direttamente per me e me le mettevo in tasca; se invece tali mance erano versate sull’applicazione, queste venivano trattenute dall’azienda”. In totale, stando ai calcoli di uno degli indagati intercettato, sarebbe “21mila euro le mance rubate ai rider”. Ai quali sarebbero stati anche “derubati” i 70 euro di cauzione richiesti per lo zaino portavivande. E quando un rider ha rinfacciato a un uomo della Flash Road City di essere uno “schiavista” e un “ladro”, sono arrivate le minacce: “Ho solo minacciato di venirti a rompere la testa e lo ribadisco (…) ti vengo a prendere a sberle, ti rompo il culo”. E l’ordine impartito era chiaro: “Chi fa il testa di minchia mettiamolo in stand by”. Insomma, veniva bloccato l’accesso all’applicazione e quindi non era possibile lavorare: “Diamo un giorno di punizione così capisce”, si scrivevano gli indagati.

La “consapevolezza” di Uber – Per i giudici Uber “partecipava” attraverso “alcuni suoi dipendenti” a “sanzionare i rider” e incideva “pesantemente sui turni lavorativi” chiedendo di metterne a disposizione un numero congruo nelle orari di maggiori ordini e lamentandosi, è ricostruito nelle carte, quando invece erano in tanti ad essere “loggati” sulla piattaforma durante il pomeriggio. Per i giudici è “palese” che Uber “indirizzasse e limitasse le capacità decisionali” di Flash Road City “con ripercussioni sull’autonomia decisionale” dei fattorini e in “aperta contraddizione” con quanto previsto nel contratto tra le due società e tra la società appaltatrice e i rider. Una delle dirigenti, Giulia Bresciani, scrivono i giudici, era “pienamente partecipe nella gestione” dei rider e in un’occasione ha invitato un uomo della Flash Road City, Danilo Donnini, a sostituire un fattorino malato “con un soggetto terzo privo di contratto né coperto da alcuna garanzia assicurativa”. Così i rider erano “costretti a lavorare in precarie condizioni di salute dietro la promessa di ricevere un bonus extra che ha un importante impatto economico sul basso compenso precepito”, si legge nel decreto. “Ora ho chiesto a D. di scendere in strada anche se è malato che gli do 50 euro”, scriveva Donnini nel dicembre 2018 a Bresciani che rispondeva con una risata e chiedeva “ma non ha un amico?”.

Le “sentinelle” per controllarli – E c’era anche un “gruppo WhatsApp ‘Amici di Uber'” in cui alcuni manager di Uber e i titolari delle società intermediarie di manodopera parlavano persino di “sentinelle” da piazzare davanti ad un McDonald’s per fotografare i rider che avevano “atteggiamenti errati”. In uno di questi dialoghi il funzionario di Uber, Roberto Galli, parla sempre con Donnini, intermediario, chiedendogli, come riassumono i giudici, “che tipo di contromisure stanno prendendo per il ripetersi di atteggiamenti ‘indecorosi’ al fine di evitare ulteriori lamentele da parte del McDonald’s” che si trova in zona Marghera a Milano. E Donnini: “Abbiamo messo due sentinelle che fotograferanno chi avrà atteggiamenti errati (…) li segnaliamo e blocchiamo a vita (dall’app per le consegne, ndr). Direi che in questo week end tale azione di controllo verrà eseguita”. In un’altra conversazione Bresciani, anche lei dipendente Uber, dice a Donnini che “sotto il 70% vanno bloccati”, riferendosi alla percentuale di “accettazione” degli ordini da parte dei rider. E Donnini: “Ora do ultimatum, poi li blocchiamo”. Si tratta di comportamenti che secondo i giudici esplicitano come i manager della multinazionale di San Francisco abbiano partecipato attivamente al controllo e fossero consapevoli delle condizioni di lavoro.

La “valanga” Covid – Il “regime di sopraffazione retributivo” ai danni dei rider, oltretutto, secondo i giudici, si è aggravato con “l’emergenza sanitaria” scoppiata a causa del coronavirus, perché “l’utilizzo” dei fattorini “è progressivamente aumentato a causa della richiesta determinata dai restringimenti alla libertà di circolazione”, tanto che “potrebbe aver provocato anche dei reclutamenti a valanga e non controllati”. Un motivo in più per i magistrati di Milano per commissariare la società, ora in amministrazione giudiziaria per un anno, che secondo il Tribunale non ha sorvegliato né allontanato i manager ma che sostiene di aver lavorato “pieno rispetto di tutte le normative”.

Articolo Precedente

Coronavirus, il procuratore di Bergamo su zona rossa: “Decisione era governativa. Nostro dovere accertare i fatti, cittadini chiedono giustizia”

next
Articolo Successivo

Rider e caporalato, nelle chat lo schiavismo digitale sui fattorini Uber: “Se puzza fuori dai coglioni”. Fattorini costretti a implorare la paga

next