“O ci proviamo o restiamo senza lavoro”. Marco Brozzi lo aveva detto con chiarezza ai suoi colleghi: il rischio era chiudere i battenti e ritrovarsi disoccupati. Da qui parte la storia della cooperativa Ceramiche Noi, nata dalle ceneri dell’umbra Ceramisia grazie al fenomeno del workers buyout: il salvataggio di un’impresa da parte dei dipendenti che ci hanno lavorato. Tutto comincia nel luglio 2018, quando la proprietà dell’azienda passa di padre in figlio: quest’ultimo decide di delocalizzare l’attività in Armenia, togliendo così il lavoro a tutto il personale, 15 dipendenti.

“Ho pensato a cosa potevo fare, e mi sono confrontato con Legacoop Umbria”, dice al Ilfattoquotidiano.it Marco Brozzi, un tempo direttore di Ceramisia, ora presidente di Ceramiche Noi. “Qui ho incontrato Andrea Bernardoni, responsabile dell’ufficio economico che ci ha seguito nella fase di start-up”. L’idea: investire 180mila euro per rilevare l’azienda e creare una cooperativa, usando come fondi il TFR e la naspi, l’indennità mensile di disoccupazione. Una scommessa che passa attraverso un simbolo, poi tatuato sulla pelle: “Il vicepresidente Pierpaolo Dini mi disse: se funziona, mi faccio un tatuaggio a 52 anni”, ricorda Brozzi. E così è stato: la cooperativa è partita in luglio e ora è attiva a pieno regime. Al momento conta 11 soci (i lavoratori dell’azienda precedente) e ha assunto tre persone a tempo indeterminato. Tutti hanno lo stesso tatuaggio: il logo della cooperativa, che unisce il cuore a una fiamma e rappresenta “la passione che mettiamo nel nostro lavoro”. Dini e Brozzi l’hanno anche personalizzato, rispettivamente con le frasi “Io ci credo” e “Tutti per uno, un sogno per tutti”.

La settimana scorsa, Ceramiche Noi ha organizzato una festa: non di inaugurazione, ma di ringraziamento. L’ha fatto ora, e non prima (quando il progetto è partito) perché era difficile prevedere come sarebbe andata. A distanza di tre mesi “abbiamo voluto ringraziare i fornitori, la nostra città e tutte le persone che ci hanno sostenuto: non è stato facile dato che abbiamo lavorato anche 14 ore al giorno, ma ce l’abbiamo fatta”. E nel futuro, cosa c’è? “Ora, fra i nostri obiettivi principali c’è il recupero dei clienti, in gran parte provenienti dagli Stati Uniti”. Quanto alla possibilità di espandersi, precisa Brozzi: “Se tutto procede come immaginiamo, nel 2020 pensiamo di assumere altre cinque persone”.

In Italia, la pratica dei workers buyout ha registrato un boom a partire dal 2008, inizio della crisi economica. Tra 2007 e 2014 si è passati da 81 a 122 casi, con una crescita del 50%. Euricse, l’istituto europeo di ricerca sull’impresa cooperativa e sociale, ha redatto nel 2015 un report che traccia i contorni del fenomeno: “Le imprese recuperatein Italia”: Il documento registra 252 casi di workers buyout nel nostro Paesedal 1979 a oggi. Spesso, gli aiuti principali arrivano proprio dal sistema cooperativo e lo Stato. Inoltre, secondo la Legge Marcora – approvata nel 1985 e modificata nel 2001 – le imprese recuperate possano beneficiare di due fondi: Foncooper, un fondo di rotazione costituito da prestiti a basso interesse, e il fondo speciale per la salvaguardia dei livelli occupazionali. I contributi statali possono essere pari alla quota quella versata dai lavoratori, ma devono essere restituiti entro un periodo di 7-10 anni

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