A est, tra i sovranisti di Visegrád e oltre, soffia un vento che ricorda la propaganda comunista prima della caduta del Muro. Giornali e tv saldamente nelle mani del governo, media indipendenti prosciugati perché schivati dagli inserzionisti, che sono imprese di Stato o fedeli al potere. Tv pubbliche travolte da licenziamenti di massa, cronisti sgraditi cacciati dalle conferenze stampa, radio di opposizione lasciate senza frequenze. Parliamo di Paesi dell’Unione europea che a maggio votano il nuovo Parlamento di Bruxelles. Sono entrati in Ue perché ne condividevano i valori, inclusi la libertà di espressione e il sostegno a un pluralismo che garantisce a chi non è allineato di farsi sentire. Tutti elementi che restano perfettibili in buona parte dei 27, dove sulla carta sopravvivono norme liberticide, dal carcere per i giornalisti – come in Italia e a Malta – a leggi contro la diffamazione fortemente punitive – come in Irlanda.
Ma in Europa ci sono Paesi dove l’informazione è in caduta libera, con un degrado rapido concentrato negli ultimi anni. E tutto deciso dalla politica. In Ungheria e Polonia chi governa ha stravolto il panorama dei media, mentre la Bulgaria – dove l’80 per cento della stampa è nelle mani di una sola persona – occupa il punto più basso della classifica di Reporter senza frontiere (Rsf). Preoccupa anche la situazione della Romania, dove gli oligarchi si spartiscono i media, i finanziamenti sono opachi, l’informazione è polarizzata e la legge sulla privacy viene strumentalizzata per ostacolare le inchieste. Lo raccontano i cronisti finiti nel mirino dei governi e degli oligarchi in un lungo reportage sul mensile FQ Millennium, diretto da Peter Gomez, nel numero attualmente in edicola dedicato al “suicidio” della carta stampata e dell’informazione tv. Sono loro che parlano della libertà di stampa ostaggio di populisti e potenti, della rete di società che assicurano la lealtà dei media a chi è al potere. Strategie per imbavagliare tv, radio e giornali che si sono progressivamente imposte, mentre Bruxelles – per ora – resta a guardare.
A giocare la parte del leone è Viktor Orban, premier ungherese populista e leader di Fidesz. A Budapest, spiega a Fq Millennium Barbara Trionfi, direttore esecutivo dell’International Press Institute, “è dal 2010 che la situazione sta degenerando, ma l’Europa non se n’è resa conto. Sono stati introdotti cambi molto graduali, difficili da percepire. Per Bruxelles era complicato fare barricate perché alcuni dei nuovi elementi introdotti, dal reato della diffamazione a mezzo stampa fino al carcere per i giornalisti, sono presenti anche in altri Paesi Ue”. Da allora sono stati tanti i media spariti da un giorno all’altro o comprati da uomini vicino a Orbán, che ne hanno poi stravolto la linea editoriale, trasformandoli in megafoni del governo. 2016: chiuso Népszabadság, uno degli ultimi giornali di sinistra, dopo essere stato comprato da investitori collegati a Fidesz. Due anni dopo, con la vittoria a valanga di Orbán, il prestigioso quotidiano conservatore Magyar Nemzet è stato prima chiuso poi rilanciato nella nuova veste filogovernativa. Chiuso anche Válasz, il settimanale conservatore più popolare e da sempre critico nei confronti del governo.
Klubrádió, la principale radio indipendente sopravvissuta, si può sentire solo su internet e a Budapest perché depredata delle frequenze nelle zone rurali. Una strategia non lontana da quella della Polonia, precipitata nelle classifiche della libertà di stampa dal 2015, da quando il partito Diritto e giustizia (Pis) del suo padre e padrone Jaroslaw Kaczynski arriva al potere. Anche a Varsavia la neutralità dei giornalisti non è gradita.
Leggi l’inchiesta completa su FQ MillenniuM di maggio, attualmente in edicola
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