Rifarsi una vita all’estero può essere una sfida ancora più difficile se fatta con prole al seguito. Diciannove mamme italiane sparse nei cinque continenti raccontano la loro esperienza nel libro Mamme italiane nel mondo (Prospettiva Editrice). Un volume collettivo che prende le mosse dall’omologo gruppo (e pagina) Facebook. Dalla Scozia all’Ecuador, dalle Canarie al Giappone: un viaggio ai quattro angoli del globo, e nella condizione dell’essere madri oggi. “Si parla di scuole, di culture e cibi diversi, di svezzamento, di clima, di nostalgia, di famiglia, di lingua, ma soprattutto di come farcela. Perché partire è il primo grande ostacolo. Ma la vera difficoltà è restare”, spiega nella prefazione la curatrice del progetto editoriale, Stella Colonna, che ha vissuto un anno a Tampa Bay, in Florida, col marito e i loro due bambini. Tutto il ricavato del libro andrà in beneficenza a Time4life International, un’associazione che aiuta i bambini in condizioni di disagio.

“Quando espatri porti con te il tuo bagaglio culturale, da qualsiasi posto parti e ovunque arrivi. Non si nasce mamme, e quando lo si diventa è inevitabile fare tutto e il contrario di tutto di quelli che sono stati i nostri modelli di riferimento. Quindi si rischia di trovarsi in Perù o in Mozambico, in Russia o in Australia, nel 2018, e comportarsi come le nostre mamme nel 1984 – dice al Stella, tornata (“al momento”) nella sua Frascati -. Come mamma espatriata ho sofferto di una cosa: far pesare ai nostri figli le decisioni mie e di mio marito. Loro non hanno potuto scegliere di rimanere vicino ai nonni, agli zii e ai cugini: sono dovuti salire su un aereo (anzi, su più di uno), andare in una scuola completamente diversa da quella alla quale erano abituati, lasciare tutti i loro amichetti, parlare una lingua sconosciuta e iniziare una nuova vita, senza la motivazione di noi adulti”.

E c’è anche chi spiega cosa significhi essere una mamma expat. “Per me – racconta Flavia Rossi, manager di asili nido milanese, sposata con due bambini ed emigrata a Sosua, in Repubblica Dominicana – è stato gestire gravidanza, parto e primi anni delle bimbe praticamente da soli, senza nessun aiuto da parte dei parenti. E ha voluto anche dire entrare in contatto con tanti modi diversi di vivere la maternità e di gestire la cura di un neonato”. Anche Sara Cavallucci, originaria di Pescara, ha accettato di raccontare il suo percorso nel libro. Lei che vive e lavora a Bruxelles da nove anni, “dopo che l’azienda dove lavoravo chiuse il mio stabilimento produttivo”; lei che ha un bimbo di sei anni nato proprio nella capitale europea. Fuori dall’Italia può essere più semplice conciliare tempi di lavoro e tempi di vita, a cominciare dal ruolo di mamma. “A Bruxelles ho un lavoro impegnativo, ma la possibilità di adattare i miei orari a quelli del mio piccolo – afferma Sara -. La mattina lo accompagno a scuola, il pomeriggio lo riprendo alla “garderie”, il doposcuola aperto fino alle 18.30 in cui i bambini giocano, corrono, disegnano. La garderie è molto importante per me, perché così so che Francesco trascorre il pomeriggio in un luogo sicuro, gioca con i suoi amici e fa sport almeno un paio di volte a settimana. Ho abbandonato riunioni importanti quando Francesco non stava bene, semplicemente dicendo la verità. Non mi è stato fatto mai pesare: avere dei figli non deve essere discriminante nel mondo del lavoro”.

E quello che emerge dalle storie è che esiste una specificità italiana nell’esser mamma, in patria o altrove. “La mamma tricolore la riconosci da lontano. È quella che parla con la voce più alta, che gesticola e controlla il figlio più di quanto non lo facciano le altre e a prescindere dall’età dell’erede”, commenta Stella. Emigrate e mamme: doppia fatica o doppia opportunità? “Direi entrambe. Per me ha significato trascorrere quasi due anni senza che mia figlia conoscesse i nonni e gli zii. Ma questo ha comportato pure il poterle dedicare tantissimo tempo, come non avrei potuto fare a Milano coi ritmi di prima – conclude Flavia -. E ad appena tre anni, Priscilla capisce e parla tre lingue straniere forse persino meglio di me, e sa rapportarsi con tutti senza fare caso al colore della pelle e degli occhi, al loro accento o alla loro religione”,

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