Senza far troppo rumore, per non disturbare l’alleato di governo, la Lega è protagonista della più grande colata di asfalto e cemento mai registrata in Pianura Padana. E proprio in quelle terre, già soffocate da un’infrastrutturazione selvaggia (e rigorosamente bipartisan) si giocherà la resa dei conti con l’alleato pentastellato, ben presente nei comitati locali contro le nuove opere e geneticamente avverso al consumo di suolo. Epicentro del mega progetto viabilistico, due regioni a trazione leghista per eccellenza: Lombardia e Veneto.

LOMBARDIA – Partiamo dalla prima, campione nazionale della “cura dell’asfalto” e prima in Italia per consumo di suolo, cresciuto dal 2012 del 18%. Era il settembre 2016 quando la giunta Maroni varò il primo Piano regionale dei trasporti, dopo 34 anni di vuoto legislativo. Con tanto di Valutazione ambientale strategica, lo strumento più evoluto di analisi ambientale a livello europeo, salvo poi ignorarne i risultati. Tutte, ma proprio tutte le nuove autostrade passarono l’esame, per un totale di 331 km su 715 di dotazione esistente. Gap infrastrutturale? Macché, la Lombardia è la terza regione in Europa per densità autostradale. Spiazzando le previsioni, vennero riesumate arterie come la Cremona-Mantova, estinta naturalmente per mancanza di finanziamenti, o la Broni-Mortara, autostrada del Gruppo Gavio bocciata in sede di valutazione ambientale (primo caso in Italia) vista la contaminazione che continua a mietere vittime in quella zona, già ferita dall’amianto della Fibronit.

Poi c’è la Tirreno-Brennero, 84 km tra Fontevivo e Nogarole Rocca, nel cremonese, in un quadrilatero già percorso da quattro autostrade. Qui tra contributo pubblico (900 milioni) e indennizzo di fine concessione (1,7 miliardi) Gavio potrebbe vedersi ripagata l’intera opera, appaltata al costruttore Pizzarotti. E ancora, la Pedemontana, la Verese-Como-Lecco, la Valtrompia, la Corda Molle (Brescia sud), la Bergamo-Treviglio. Costo complessivo: 11 miliardi, in buona parte destinati a Gavio, di cui 3,5 a carico di Stato, Regione e Anas. Per non parlare delle superstrade, come la Rho-Monza o la Vigevano-Malpensa. Più della metà dei soldi stanziati per le ferrovie, invece, andranno diritti all’alta velocità Treviglio-Verona e Milano-Genova (Terzo valico) per 8,2 miliardi, o ad opere contestate come il traforo del Mortirolo (300 milioni).

Tutti progetti, non dimentichiamolo, passati senza uno straccio di valutazione costi-benefici indipendente, trasparente e comparabile, pratica introdotta solo di recente dal ministro Toninelli (prima erano gli stessi concessionari a valutare le proprie infrastrutture). Con poche eccezioni, i partiti hanno sempre visto come fumo negli occhi valutazioni super partes, perché avrebbero bloccato troppi progetti e interrotto la spirale elettoral-affaristica dalla quale hanno attinto a piene mani.

Emblema della nuova corsa all’asfalto è diventata, suo malgrado, la Pedemontana Lombarda. Osannata in egual misura da Formigoni e Penati, l’autostrada è ora un vessillo leghista a tutto tondo. Non importa che tra perdite e svalutazioni stia affossando pezzi importanti dell’impresa pubblica lombarda, che pagheranno i cittadini. “Nessuno stop all’autostrada, se il governo dovesse decidere di non finanziarla e non sostenerla, sarà sicuramente realizzata da Regione Lombardia”, ha tagliato corto il governatore Attilio Fontana.

A un terzo del tracciato (mancano altri 60 km) in 5 anni ha collezionato perdite per 58 milioni, malgrado potenti iniezioni di denaro pubblico. Non sono bastati 1,2 miliardi statali a fondo perduto, defiscalizzazioni per 380 milioni e garanzie regionali per 450 milioni: dopo tre decenni mancano ancora all’appello 235 milioni di capitale sociale e soprattutto 2,4 miliardi di finanziamenti privati, che le banche si guardano bene dal mettere. Sarà che il traffico è tuttora la metà delle previsioni e il pedaggio il più caro d’Italia. La capogruppo Serravalle, un tempo gioiello dell’imprenditoria pubblica, si sta dissanguando per ricapitalizzare la società e assorbire le perdite, mentre al piano superiore Asam (la finanziaria della Regione che ha in pancia Serravalle) ha chiuso i battenti con un buco di oltre 100 milioni. Il conto è presto fatto. Tra svalutazioni, perdite, contributi e defiscalizzazioni, i 90 km di Pedemontana sono già costati più di 2 miliardi alla collettività, senza contare le garanzie regionali, i futuri aumenti di capitale e i contenziosi. Per inciso, questi ultimi hanno generato oltre 2 milioni di spese legali in quattro anni, di cui 50mila incassati dall’avvocato di Maroni, Domenico Aiello, già difensore delle Regione in altre cause.

Dopo l’ok del Cipe nel gennaio scorso, la Lega non vuol nemmeno sentir parlare di sospensioni o moratorie. Lo scontro con i 5 Stelle in regione è continuo e dopo l’esposto all’Anac del senatore Gianmarco Corbetta potrebbero riaprirsi i giochi. Stesso scenario – più probabile – se entro 12 mesi dall’ok delle Corte dei Conti non arrivassero i finanziamenti, come previsto dal 2° atto aggiuntivo della Convenzione. A quel punto la palla passerebbe al governo e verrebbe ridiscusso il piano finanziario con sviluppi inediti, nazionalizzazione compresa (ipotesi avanzata a suo tempo dal ministro Delrio). Certo è che il conflitto in seno alla maggioranza uscirebbe come un fiume carsico.

Un altro caso clinico è la Brebemi, la direttissima Brescia-Bergamo-Milano, che fa il paio con la perpendicolare Tangenziale Esterna (Teem), entrambe fortemente volute dalla Lega. Inaugurata nel luglio 2014, ha accumulato perdite per 190 milioni in quattro anni, nonostante 330 milioni di contributi pubblici (60 dalla giunta Maroni). Il traffico continua ad essere la metà del previsto ma a fine concessione la società – controllata dal Gruppo Intesa Sanpaolo con forte presenza di Gavio sugli appalti – potrà contare su una “buonauscita” di 1,2 miliardi, che sommata ai soldi pubblici ripaga quasi interamente il costo di costruzione. Un po’ meglio i conti di Teem (-68 milioni in due anni), aperta nel maggio 2015 e passata recentemente sotto il controllo di Gavio.

“Brebemi è un’altra eccellenza lombarda, oltre che un’operazione veramente innovativa poiché si tratta del primo progetto autostradale italiano finanziato in project financing e premiato a livello europeo”, ha ripetuto con tono ipnotico il governatore Maroni. In cambio la società – benché interamente privata – ha sempre riservato alla Lega un posto nel Cda, come fece in passato a seconda delle giunte e dei governi in carica. Una prassi da Prima Repubblica mai morta nel mondo delle concessionarie, utilizzate dalla politica come serbatoi di consenso, di cariche e di finanziamenti. Intorno a un’infrastruttura vive e prospera una lunga filiera (costruttori, consulenti, banche, studi legali e società di tutti i settori) che per la controparte politica sono fonte di voti e talora di soldi, visto che i due terzi del finanziamento privato ai partiti viene dal cemento e dall’asfalto. Fatto sta che su Pedemontana, Brebemi e Teem i cittadini hanno sborsato 1,9 miliardi di contributi diretti, destinati a coprire perdite e interessi, quando ne bastava uno e mezzo per rimettere a nuovo le ferrovie locali, e alleviare le pene dei 700.000 pendolari lombardi.

VENETO – Sul fronte veneto la furia asfaltatrice della Lega, al governo da un decennio, avrebbe fatto anche di più se l’inchiesta sul Mose non avesse tirato il freno a mano. Nogara Mare, Nuova Romea, Valdastico, prolungamento dell’A27, Nuova Valsugana, Meolo-Jesolo, terza corsia della Venezia-Trieste, Pedemontana, Grande raccordo anulare di Padova, tangenziali venete, avrebbero srotolato 660 km di nuova rete a pedaggio, per la cifra monstre di 18 miliardi di euro. Opere anch’esse varate allegramente senza valutazioni costi-benefici indipendenti, se qualcuno avesse dei dubbi. Per non parlare di progetti faraonici come Veneto City, 750.000 metri quadri a uso commerciale tra Dolo e Pianiga, o il mega polo logistico di Dogaletto. E ovviamente il Mose.

Tutto ruotava intorno a un sistema di potere collaudato e riconducibile ad alcune figure chiave come l’onnipresente Mantovani, società di costruzioni guidata da Piergiorgio Baita, il potente assessore alle infrastrutture Renato Chisso e il suo collaboratore Stefano Vernizzi, non meno potente e titolare di una sfilza di cariche ai vertici della Regione, tra cui quella di amministratore delegato di Veneto Strade. Chisso, detto “l’asfaltatore di Quarto d’Altino“, fu l’anello di congiunzione tra le giunte Galan e Zaia, garantendo piena continuità nella politica infrastrutturale. Fino a quando i magistrati fecero saltare il banco e cadere molte teste, mentre Chisso fini agli arresti nel 2014.

L’anno dopo una commissione di esperti tirò una riga nera su molti progetti, in gran parte per mancanza di coperture. Restano in piedi la Pedemontana, la Valdastico Nord, il prolungamento dell’A27 e la terza corsia della Venezia-Trieste. Soprattutto sulle prime due la giunta non intende fare marcia indietro. Ma è sulla prima che si consuma lo scontro più acceso con i consiglieri pentastellati, tanto più dopo le esternazioni del ministro Toninelli sulla dubbia sostenibilità dell’opera e dopo i rilievi della Corte dei Conti. Ma non occorra essere esperti per capire che qualcosa non gira in quel contratto, orgoglio della giunta Zaia. Dal 2003 i costi sono triplicati a quota 2,7 miliardi e l’intero impianto finanziario si regge su contributi e garanzie pubbliche, con un rischio traffico che nella peggiore delle ipotesi – non così lontana – potrebbe affossare le finanze regionali.

Al contributo pubblico di 900 milioni (300 dalla giunta regionale) si aggiunse un prestito obbligazionario di 1,6 miliardi al 5% garantito dalla stessa Regione, comunque insufficiente a coprire i due terzi delle opere complementari. Ma è sulla gestione che i conti rischiano di saltare. Fino al 2059 sono previsti costi per 12,1 miliardi e ricavi di poco superiori, da girare al concessionario. L’incognita tuttavia è il traffico. I ricavi sono infatti plausibili a fronte di almeno 46.000 transiti giornalieri (terza e ultima convenzione, maggio 2017), ma le stime di traffico di Cassa depositi e prestiti segnalano un ribasso del 44%. Qui il rischio è tutto della Regione mentre il concessionario (SIS, controllato dal costruttore Dogliani e dagli spagnoli Sacyr) incasserà utili netti per 5,7 miliardi, comunque vadano le cose. Cifre mai viste, nemmeno tra i big del settore.

“Si spera erroneamente di sottrarre traffico alla A4 con il secondo pedaggio più caro d’Italia, spiega Massimo Follesa, attivissimo portavoce del Covepa (Coordinamento Veneto Pedemontana Alternativa), senza contare il probabile aumento dei costi di manutenzione, visto il territorio ricco di acque superficiali. I recenti crolli nei cantieri della Valle dell’Agno lo dimostrano”. E proprio questi intoppi rendono improbabile il completamente dei lavori (ora al 50%) nel settembre 2020 e rischiano di far salire il conto

Difficile prevedere anche l’esito della Valdastico Nord, che fa capo ad A4 Holding (Brescia-Padova), un tempo controllata dal Gruppo Intesa Sanpaolo con forti entrature leghiste (l’esponente del Carroccio Attilio Schneck fu presidente nel triennio 2013-2015) e ora passata alla spagnola Abertis. I più informati parlano di una revisione dell’intero progetto, già ampiamente modificato e oggetto di numerosi rilievi critici. Il tracciato attraversa la provincia di Trento in un territorio alpino sfavorevole, che rischia di far lievitare i costi. E poi dovrà passare al vaglio del Cipe e dei nuovi criteri di valutazione: un ulteriore fardello sulla tenuta della coalizione.

Frenata sull’asfalto, la Lega ha ampiamente compensato con il cemento. Seconda regione in Italia per consumo di suolo, cresciuto del 15% dal 2012, nell’ultimo ventennio il Veneto è stata terra di conquista per i costruttori. La recente legge sul consumo di suolo (14/2017) è talmente blanda da rasentare l’irrilevanza. Dopo aver posto dei limiti all’azione dei comuni, che oggi dispongono di qualche strumento in più per fermare il cemento, ha annacquato il provvedimento con una lunga serie di deroghe. Ad esempio, sono escluse dalla legge le opere pubbliche, l’edilizia pubblica e, naturalmente, strade e autostrade, indicate dall’Ispra come prima fonte di consumo di suolo. Gli articoli sulla rigenerazione urbana, invece, sono stati neutralizzati dalla mancanza di fondi. Ma il colpo di grazia potrebbe venire dal “piano casa” in discussione, spiegano in Legambiente, che liberalizza ulteriormente il settore a vantaggio dei privati.

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