L’automazione e l’intelligenza artificiale sono una minaccia per i posti di lavoro in tutto il mondo, ma almeno a breve termine la tendenza dovrebbe essere contraria. Vale a dire che i posti creati grazie ai robot saranno più di quelli persi; ad affermarlo è il World Economic Forum di Ginevra, organizzazione no profit che da quasi cinquant’anni si dedica allo sviluppo dell’economia mondiale.

Secondo l’analisi The Future of Jobs 2018 l’automazione farà scomparire circa 75 milioni di posti di lavoro in tutto il mondo, ma saranno 133 milioni quelli creati dallo stesso fenomeno. Un bilancio positivo dunque, dovuto all’apertura di nuove posizioni per analisti, sviluppatori, responsabili di social media, marketing e altri settori dove le macchine ancora non possono sostituire gli esseri umani. A farne le spese saranno invece le attività ripetitive sia in ambito produttivo (nelle fabbriche) sia in quello amministrativo.

Una previsione ottimistica ma limitata al 2022. Sempre secondo il WEF, invece, già nel 2025 i robot occuperanno il 52% dei posti di lavoro possibili in tutto il mondo, quota che oggi è ferma “solo” al 29%. Alla lunga, anche le attività che sembrano territorio sicuro per gli esseri umani saranno colonizzate dalle macchine, mano a mano che gli algoritmi diventeranno più potenti e affidabili; già oggi si stanno sperimentando computer in grado di programmare sé stessi e loro simili – disciplina che minaccia direttamente l’attività di milioni di programmatori in tutto il mondo.

Sono gli effetti immediati della “quarta rivoluzione industriale” che secondo il WEF includono grandi “opportunità di prosperità economica, progresso sociale e crescita individuale”. Ma per realizzare il massimo potenziale è cruciale che “gli stakeholder attivino riforme nell’educazione e nel sistema formativo, nelle politiche inerenti al mercato del lavoro, che ci sia un approccio professionale allo sviluppo delle competenze […]”. Ci vorranno una “forte leadership” e “spirito d’impresa” tanto da parte delle aziende quanto dei governi.

Il guadagno di posti di lavoro a breve termine, dunque, non va letto come una conclusione né come un’autorizzazione a rilassarsi. Davanti a noi c’è una “transizione difficile per milioni di lavoratori e la necessità di investimenti proattivi nello sviluppo di una nuova generazione di persone in grado di imparare facilmente e con grandi abilità, a livello globale”.

Esiste la concreta possibilità, invece, che si realizzi lo scenario peggiore: da una parte le macchine che lavorano al posto degli umani, e dall’altro una grave carenza di competenze, disoccupazione di massa e aumento delle disuguaglianze. Il rapporto del WEF sottolinea come aziende e individui siano direttamente responsabili di un processo di riqualificazione degli esseri umani.

In altre parole, dobbiamo tutti acquisire competenze che le macchine non potranno sostituire, almeno nel breve e nel medio termine. “Le aziende dovranno riconoscere l’investimento nel capitale umano come un asset piuttosto che un obbligo o responsabilità (indesiderabile)”.

È necessario dunque un rinnovato sforzo da fare su noi stessi. Quello che il WEF sembra suggerire è che l’Umano deve impegnarsi per diventare e restare competitivo nei confronti della macchina. Uno sforzo che, tuttavia, è descritto come una risposta nell’immediato. Una risposta che potrebbe funzionare per qualche decina d’anni, ma a lungo termine i dubbi restano.

Un terremoto alla base stessa del sistema

Il dibattito tuttavia è ancora irrisolto, tra chi immagina scenari apocalittici e chi ritiene che invece si ripeterà quanto già visto in passato: nascita di nuovi posti di lavoro e nuove figure professionali a compensare quelli persi per via dell’automazione. Guardare al passato non è necessariamente la strada giusta.

È vero che le rivoluzioni industriali precedenti hanno generato nuovi posti di lavoro e che alla fine il bilancio è stato positivo, ma lo è anche il fatto che oggi sta iniziando un cambiamento senza precedenti. Non abbiamo mai avuto macchine in grado di imparare cose nuove, o di svolgere attività complesse come programmarsi da sole. Né abbiamo mai avuto la prospettiva di avere perdite di posti di lavoro nell’ordine del 30 o 40% (o anche di più) a livello mondiale. Che qualcuno ne sia spaventato – italiani compresi – è del tutto comprensibile, visto che anche le stime più ottimistiche parlano di un impatto devastante.

Tra gli ottimisti tuttavia ci sono anche quelli convinti che perdere il lavoro non debba essere necessariamente una cosa cattiva. Le AI hanno il potenziale per scuotere alla radice il sistema economico, negando l’idea alla base delle nostre società: che l’individuo debba vendere il proprio tempo e le proprie capacità in cambio delle risorse per sopravvivere.

L’idea è in circolazione ormai da diversi anni, e nel tempo ha raccolto il sostegno più o meno diretto di diversi personaggi autorevoli come Bill Gates, Elon Musk, Stephen Hawking e altri. E si basa su un concetto relativamente semplice: ridistribuire la ricchezza prodotta dai robot a tutti, eventualmente tassando proprio quelle aziende che generano un maggior profitto e andando a innescare il meccanismo dello Universal Basic Income, il reddito universale di base. Un’idea ancora lontana e remota, ma ipotesi di regolamentazione aleggiano da tempo presso molte istituzioni del mondo, non ultimo il Parlamento Europeo.

Dobbiamo quindi battere due strade allo stesso tempo: da una parte quella indicata dal World Economic Forum, vale a dire insistere con veemenza sullo sviluppo di una popolazione dotata di competenze avanzate in grado di convivere con i robot. E dall’altra prepararsi a un totale sconvolgimento del sistema economico, nel quale le macchine saranno in grado di produrre ricchezza abbondante che si potrà ridistribuire a tutti noi. Sembrano scenari da fantascienza, ma molti lo ritengono un futuro tutt’altro che remoto.

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