“Questo processo ha avuto peculiarità rilevanti che l’hanno segnato fin dall’inizio e che hanno segnato questa lunga istruttoria dibattimentale che oggi si è conclusa. Questo è un processo che, con tutti i limiti dell’azione giudiziaria, ha incrociato una parte importante della storia che dagli anni ’90 e ha riguardato i rapporti indebiti che ci sono stati tra alcuni boss di Cosa nostra e alcuni esponenti delle istituzioni dello Stato“.  Comincia così, dopo 202 udienze e oltre quattro anni di processo, la requisitoria della procura al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.

Davanti alla corte d’assise di Palermo ci sono dieci imputati tra capimafia, ufficiali dell’Arma, ex politici. “Una storia che, al di là della retorica e della linea della fermezza evocata dai protagonisti della vicenda che hanno ribadito la fermezza della linea dello Stato, per noi invece tante volte tradita, la verità che è emersa è quella di una parte importante e trasversale delle istituzioni che, spinta da esigenze personali, egoistiche, ambizioni di potere contrabbandate per ragioni di Stato, ha cercato e ottenuto il dialogo e parziale compromesso con Cosa nostra”, ha detto il pm Roberto Tartaglia che ha rappresentato la pubblica accusa nella prima parte della requisitoria. “E ha fatto questo violando le regole dello Stato di diritto e ottenendo risultati devastanti – ha aggiunto – Gli esiti sono stati la realizzazione dei desideri più antichi dei vertici di Cosa nostra. Una Cosa nostra che cerca da sempre, seppure con la violenza, la mediazione”.

Quindi il sostituto procuratore ha snocciolato i punti che saranno illustrati nel resto dell’atto d’accusa. “Dovremo provare sistematicamente tutti i singoli elementi di prova che non vanno atomizzati ma letti nell’insieme perché se divisi in tasselli sarebbero sottovalutati, mentre analizzarti nel loro complesso si mostrano come tasselli di un unico disegno”, ha spiegato Tartaglia, uno dei quattro pm del processo insieme a Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Nino Di Matteo.  “Si è cercato di banalizzare la contestazione che abbiamo fatto agli imputati dicendo che la trattativa non è reato”, ha sottolineato il magistrato che è poi passato ad analizzare le condotte contestate ai mafiosi, Leoluca Bagarella e Nino Cinà. “Hanno commesso la condotta tipica dell’articolo 338, la violenza e la minaccia al Corpo politico dello Stato, condotta che ha preso il via con il delitto di Salvo Lima. Fin dal marzo del 1992 le finalità dei boss sono duplici, la vendetta e il messaggiò alle istituzioni, il ricatto al governo”, ha spiegato il pm.  Che a conferma della tesi dell’accusa ha citato le parole del boss Riina intercettato. “Io al governo gli devo dare i morti“, diceva il padrino di Corleone. “È esattamente in termini crudi l’essenza dell’imputazione ai mafiosi”, ha proseguito il magistrato che ha parlato di “morti venduti per avere in cambio un corrispettivo”. Per la Procura, poi, i politici coinvolti, come Marcello Dell’Utri, avrebbero agito in concorso coi mafiosi avendo svolto un’attività di mediazione tra i boss e lo Stato, mentre i carabinieri imputati, Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, avrebbero assicurato in modo clandestino e illegittimo, il collegamento tra i mafiosi e parte delle istituzioni.

“Il comportamento degli ufficiali – ha spiegato il pm – ha realizzato due obiettivi storici di Cosa nostra: aumentare la forza dell’organizzazione mafiosa e addirittura confermare e orientare la volontà di Cosa nostra di attaccare lo Stato frontalmente. Hanno orientato perfino la scelta degli obiettivi da colpire che nel tempo sono cambiati rispetto a quelli iniziali. Non più politici ritenuti traditori come Lima e Mannino, ma obiettivi come quelli di Roma, Firenze e Milano che rispondevano meglio alla logica di quella mediazione: aumentare l’allarme sociale”. Il pm ha citato le parole del pentito Gaspare Spatuzza che ha raccontato quando, sfogandosi con il boss Giuseppe Graviano, disse “ci stiamo portando morti che non sono nostri“, riferendosi alle vittime delle stragi nel Continente. “E Graviano rispose – ha detto Tartaglia – è buono, così quelli che si devono muovere si danno una smossa”.

Prima di lasciare la parola all’accusa la corte d’Assise di Palermo ha rigettato la richiesta di acquisizione della nuova consulenza audio eseguita con spettrogramma depositata dal legale di Dell’Utri che avrebbe dovuto confutare le trascrizioni della procura della conversazioni tra il boss Giuseppe Graviano e Michele Adinolfi: “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia. Stragi ’93? Non era la mafia”.

La consulenza smentisce che il boss abbia pronunciato la parola Berlusconi, la parola potrebbe essere bravissimo. La corte ha però ammesso i file audio delle intercettazioni in carcere di Graviano “ripulite” dai rumori di sottofondo. (Ascolta qui l’audio). La corte ha anche acquisito il certificato di morte del boss Totò Riina, scomparso il 17 novembre, tra gli imputati del processo.

Il legale di Marcello Dell’Utri, l’avvocato Giuseppe Di Peri, aveva sostenuto che “Lo studio dimostra in modo inconfutabile che le trascrizioni delle conversazioni fatte dalla Procura non sono fedeli”, si legge nella relazione del tecnico, Alberto Giorgio, nominato dalla difesa dell’ex senatore. Di Peri ha anche depositato una pendrive con l’audio “ripulito” dai rumori che confermerebbe l’esito della consulenza effettuata tramite lo spettrogramma.

 

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