“Tutte queste persone hanno in comune di lavorare per dei padroni pieni di soldi che non rispettano i diritti fondamentali dell’individuo”. Un concetto ripetuto due o tre volte da Giorgio Cremaschi, ex numero uno della Fiom, che sabato pomeriggio ha partecipato al raduno di un centinaio di lavoratori appartenenti alle vertenze Sky Italia, Almaviva, Gse, Alitalia e Tim, presso l’Esc Atelier nel quartiere San Lorenzo di Roma. I dipendenti di alcune fra le aziende più importanti del Paese hanno raccontato le loro storie, esposto il dramma del filo a cui è appesa la loro vita lavorativa, sfogato la loro rabbia contro “un Governo che si fa garante degli affari delle multinazionali”. E tentato un primo confronto reciproco per allearsi e provare a lottare insieme “per i nostri diritti di lavoratori e di essere umani”. Coinvolti, su base nazionale, quasi 600 dipendenti di Sky Italia, circa 2mila di Aci e Aci Informatica, oltre 2mila di Almaviva, ben 12mila di Alitalia, circa 500 del Gestore Servizi Energetici e oltre 30mila persone appartenenti a Tim, per un totale di quasi 50mila lavoratori fra licenziati, esuberi, trasferiti, in regime di solidarietà o con il fiato sospeso per conoscere i criteri di applicazione di un decreto legge. Il dibattito è stato arricchito da alcuni video-contributi inviati dal giurista Stefano Rodotà e dal drammaturgo Ascanio Celestini.

IL CASO SKY – Una delle testimonianze più drammatiche arriva da Giuseppe, 50 anni, dipendente Sky Italia, che entro il 31 aprile dovrà dare un nome ai 190 esuberi ed ai 390 trasferimenti decisi per la ristrutturazione aziendale e la chiusura della sede di Roma. “Ci radunavano in gruppi di sette o otto presso gli uffici del personale e ci dicevano di scegliere chi fra noi doveva finire nella lista degli esuberi. Scene surreali, sembrava di stare davanti a un plotone nazista”. In questi giorni, i lavoratori stanno sostenendo dei colloqui individuali da cui dipenderà la loro sorte, motivo per il quale preferiscono restare anonimi. “Io sono fra i 9 esuberi dell’ufficio fatturazione pubblicitaria – racconta una donna – Dal prossimo mese le mie mansioni saranno prese in consegna da un’azienda con sede in Scozia. Ora sto insegnando il lavoro alle persone che prenderanno il mio posto, così poi non ci sarà più bisogno di me”. Nel calderone per lo più donne, di mezza età. “Io ho un’invalidità al 75% – racconta un’altra signora – e dopo 21 anni di lavoro o accetto di andare a Milano oppure posso passare nell’elenco esuberi”. “L’anno scorso – spiega un’altra dipendente – hanno realizzato un ufficio nuovo, chiamato ‘pianificazione editoriale’ con 10 persone. Oggi quei 10 sono finiti tutti fra gli esuberi”. Per loro non si applicano i criteri della legge 223, “vogliono dimagrire l’azienda – spiega Giuseppe – esternalizzando il più possibile e tenendo chi dicono loro, gli altri sono carne da macello”.

IL “NON ACCORDO” ALMAVIVA – Particolarmente drammatica la situazione in Almaviva. I lavoratori romani, 1.666 persone, non hanno accettato “l’accordo” “che ci chiedeva di tagliare del 17% i salari per contratti che, dalle 4 alle 6 ore di lavoro, ci portavano a guadagnare dai 650 ai 900 euro al mese”, spiega Cinzia. La lavoratrice aggiunge: “Ci hanno lasciato da soli e linciato mediaticamente perché non ci siamo piegati e i sindacati hanno rispettato la nostra volontà, cosa che non è avvenuta a Napoli e che ora rischia di crearci seri problemi”. Una realtà, quella dei lavoratori del call center che gestiva lo 060606 del Comune di Roma, fatta anche di assenza di ammortizzatori sociali. “Per noi c’e’ solo l’assegno Naspi – spiega Francesco – e alcuni di noi sono senza tfr, le istituzioni non ci hanno mai seguito. E ai colleghi di Napoli sono stati bloccati anche gli scatti di anzianità e il trattamento di fine rapporto, cosa che secondo noi non è nemmeno legale”. Sempre Cinzia, invece, fa notare che “abbiamo sempre lavorato con commesse pubbliche, ma nessuno dice niente se aprono call center in Brasile o in Romania”.

GESTORE SERVIZI ENERGETICI – Paradossalmente, a sperare nei licenziamenti di Almaviva dovrebbe essere Ramona, 33 anni, dipendente Xenesis, entrata 5 anni fa con un contratto precario divento poi a tempo indeterminato quando le hanno chiesto di firmare una “rinuncia al pregresso”. “Da quel momento – spiega – sono passata per tre fallimenti e altrettanti concordati e ora, secondo loro, dovrei sperare che i miei colleghi di Almaviva perdano il posto per lavorare nel loro appalto. Dopo 5 anni d’inferno e nemmeno un euro di tfr pagato”.

ALITALIA E I “PRECARI FANTASMA” – Entro la prossima settimana si deciderà invece il destino di 2.037 dipendenti Alitalia, tutti lavoratori “di terra”, indicati come esuberi. “Se non vola Alitalia, vola Ryanair”, avrebbero detto i rappresentanti del Governo secondo quanto riferito dai lavoratori intervenuti. Ma nel dramma, spicca ancora di più quello di Valeria e di tanti altri giovani “lavoratori stagionali”. Si tratta di ragazzi assunti 4 o 5 mesi per volta, “poi mai più richiamati prima di arrivare alla quota di 60 mesi, dopodiché l’azienda sarebbe costretta ad assumerci”. Valeria, come detto, ha lavorato per 59 mesi e 15 giorni. “Ci avevo quasi sperato – racconta – invece poi mi hanno mandato a casa e non mi hanno più richiamata”. I precari ai tavoli sindacali non vengono nemmeno nominati. “La vertenza si concentra sui 2.037 esuberi del settore terra – conferma Claudia – loro sono dei fantasmi”.

ACI INFORMATICA E LA GRANDE PAURA – Quelli che ancora non sono finiti in alcuna procedura di riorganizzazione sono i lavoratori Aci (Automobile Club d’Italia), “ma la riforma del Pra (il pubblico registro automobilistico, ndr) voluta dal ministro della Pubblica Amministrazione, Marianna Madia, ci mette in serio allarme”, sottolinea Guido. Il motivo è semplice: “Non ci sarà più bisogno di una intera società controllata di Aci, che si chiama ‘Aci Informatica’ e che conta circa 500 dipendenti. Abbiamo avuto accesso alle bozze dei decreti legislativi per l’applicazione della legge delega e siamo convinti che, una volta divenuti effettivi, l’azienda deciderà di aprire le procedure di mobilità”.

TIM E LA “STRANA SOLIDARIETA’” – Roberto e Mirco, invece, sono due impiegati della Tim, vicini di ufficio. Il primo lavora a tempo pieno e porta a casa un discreto stipendio anche grazie alle molte ore di straordinario, mentre il secondo è costretto a stare due giorni a casa in virtù del contratto di solidarietà per il quale sono stati coinvolti “circa 30mila dei 50mila lavoratori Tim”. “Non ci spieghiamo questa discriminazione – spiega Mirco – soprattutto, mi domando perché i nostri vertici di fronte ai mercati parlino di azienda in salute e poi in sede di commissione parlamentare espongano numeri che certificano la crisi”.

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