Non reggono ancora il confronto con pannelli di propaganda che decorano le strade di Pyongyang, tra immagini della dinastia dei Kim al potere e di lavoratori e soldati pronti a difendere l’ideologia del juche, ma i cartelli pubblicitari commerciali stanno a poco a poco facendo capolino nelle vetrine della capitale coreana. Il fenomeno non ha mancato di attirare l’attenzione dei corrispondenti stranieri invitati dal regime per assistere (si fa per modo di dire, visto che ne sono rimasti fuori) ai lavori del settimo congresso del Partito dei lavoratori coreano. I Mad Men quindi stanno facendo i primi passi nella Corea del Nord del giovane dittatore Kim Jong Un, che nei quasi quattro anni e mezzo al potere ha calibrato timide concessioni sul fronte economico e sfoggio di forza con test missilistici e atomici.

Un tempo relegate a far conoscere i prodotti frutto di progetti di cooperazione intercoreana, come le auto Pyongwha (joint-venture con la chiesa dell’Unificazione del reverendo Moon, quello dei matrimoni di massa) o la birra Taendonggang, reclamizzata nel 2009 con alcuni passaggi televisivi sull’emittente ufficiale, la pubblicità copre una gamma sempre maggiore di prodotti. Si va dai dentifrici sbiancanti, agli snack anti-cancro a base di cetriolo di mare fino alle pillole per la crescita dei bambini, dopo che decenni di malnutrizione hanno influito sullo sviluppo fisico della popolazione.

Il target pubblicitario è composto in gran parte dagli esponenti dell’élite urbana, soprattutto della capitale, attratta da uno stile di vita che inizia a badare ad alcuni status symbol. Si tratta dei cosiddetti “donju”, i signori dei soldi: spesso funzionari di partito, dell’esercito o burocrati, capaci di muoversi nella zona grigia dell’economia di mercato “permessa”, sebbene non legale. Sono gli stessi che stanno pompando il mercato immobiliare della capitale, fatto di nuovi quartieri in costruzione che stanno mutando lo skyline cittadino e scambi di abitazioni.

Un primo assaggio della nuova tendenza si era potuto vedere a giugno dell’anno scorso, con i cartelloni pubblicitari sfoggiati a bordo campo durante la partita di qualificazione per i mondiali del 2018 tra Corea del Nord e Uzbekistan. Fonti citate dalla Reuters sottolineano come sponsorizzazioni simili in occasione della Asian Cup abbiano fruttato fino a 40mila dollari. L’intenzione, spiega la stampa sudcoreana, è di attirare investimenti esteri.

Si registra però anche un cambiamento di mentalità sulla pubblicità commerciale. Riguardando soltanto una piccola parte della popolazione, il battage commerciale rischia di escludere ancora di più la maggioranza indigente del paese, tagliata fuori soprattutto dai prodotti di maggiore qualità o più difficili da reperire perché colpiti dalle sanzioni internazionali imposte in risposta ai programmi balistico e atomico.

Gli spot suscitano sentimenti contrastanti. In parte sono infatti associati al capitalismo e al consumismo. Tuttavia, spiega un’analisi dell’agenzia sudcoreana Yonhap, la pubblicità riveste un significato molto importante nella società socialista, poiché gratifica le necessità di crescita materiale e culturale dei cittadini. Dà inoltre l’immagine di un Partito attento ai bisogni della popolazione.

I colorati fogli A3 e A4 appesi sulle vetrine dei negozi sono comunque il segno di un cambiamento in atto. Già negli anni passati era stato segnalato un aumento della presenza di tablet, telefonini e pc. Allo stesso tempo il regime concede spazi di economia di mercato ai propri cittadini, il fenomeno è quello dei jangmadang, mercati tecnicamente illegali, ma tollerati, in cui è possibile trovare beni in arrivo dalla Cina, specie nel settore dell’elettronica.

di Andrea Pira

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