“Il giorno più bello della mia vita? Non lo so. È un bellissimo momento, ma se mi concentro su quel che abbiamo fatto, non riesco a non tornare al principio, a Pozzuoli, quando nel 1987 con il Campania, in serie C, battemmo il Cagliari contro ogni previsione e il presidente Orrù e il direttore sportivo dei sardi di allora, Carmine Longo, mi assunsero per iniziare questo strano viaggio con la valigia sempre in mano. Da calciatore, tra Roma, Catanzaro, Catania e Palermo non sono stato un grande campione. Non mi hanno dato subito un grande club da allenare. Cagliari fu l’inizio del sogno. Salimmo dalla terza serie alla serie A. Quegli anni mi diedero la possibilità di essere dove sono oggi. Non sarò mai abbastanza grato. Se me lo chiede tra qualche anno, magari, la risposta sarà diversa e la memoria di questa Premier League avrà un altro peso. Il ricordo ha questo di magnifico: si fa coprire dalla nostalgia, diventa più dolce con gli anni che passano, si fa idealizzare. Ma per fare i consuntivi, almeno spero, rimane ancora tanto tempo”. Non guardarsi indietro, stanotte, sarebbe un peccato di superbia.

Claudio Ranieri ha sempre punito quelli altrui e dopo aver trainato Leicester al centro del pianeta, torna con la memoria al suo piccolo mondo antico, quello in cui tutto si doveva ancora costruire e gli scudetti un erano un affare che toccava ad altri, una festa da osservare, proprio come adesso, con il volume di una tv in sottofondo. Alle due di notte, la città incantata si è trasformata da set permanente di Ken Loach a Moulin Rouge. Clacson, balli di piazza, canti e capannelli. A Casa Ranieri, Claudio e Rosanna, sua moglie, ridono forte ma tengono la voce molto bassa: “O mio dio, ma se le dico una cosa ci crede? Siamo proprio tranquillissimi. Vediamo la festa in tv e siamo contenti di sentire i tifosi far festa per strada. Vedere la gente felice mi rende felice. Vedere i miei ragazzi commossi, dopo tutti i sacrifici che hanno fatto, commuove anche me”. È stato sempre così, un lavoro di squadra, la vita di Ranieri. Ufficiale in comando, con oneri e onori, dei paradossi dei grandi club in cui ha prestato servizio. Gentiluomo sempre, nella buona e nella cattiva sorte. Napoli, Fiorentina, Parma, Valencia, Atletico Madrid, Chelsea, Juventus, Roma. Leicester, adesso. Per la storia e perché le partite, Ranieri insegna, durano sempre più di novanta minuti.

Signor Ranieri, parlano di voi.
Dalla Cina all’Australia. Una roba da non credere. Ora lo posso dire, ho sempre saputo che avremmo vinto.

Dice davvero? Alla stampa ha sempre detto il contrario.
Perché sono fatto così. Le cose mi è sempre piaciuto più farle che dirle.

Quando ha capito che il sogno avrebbe potuto trasformarsi in realtà?
A Natale. Avevamo raggiunto la salvezza. Ci siamo riuniti nello spogliatoio e abbiamo parlato: “Proviamoci, non ci costa nulla” ci siamo detti. E piano piano abbiamo capito che era il momento di osare.

Nessuno avrebbe puntato un penny su di voi.
È stato un vantaggio. In Premier è stato un anno incredibile. Non è che le grandi abbiano giocato sempre male, ma non sono riuscite ad avere continuità. Noi zitti, zitti, piano, piano, abbiamo preso fiducia.

Da Vardy in giù, le tv hanno mostrato la gioia di un gruppo di ragazzi normali e sorpresi, arrivati per una serie di circostanze in cima all’Olimpo.
Ogni tanto succede. Raramente, ma succede. A questi calciatori straordinari, a queste persone straordinarie, ho detto una cosa precisa, fin dal primo giorno.

Cosa gli ha detto?
Quello che ripeto da sempre: Non so mai contro chi gioco e non mi importa nulla di chi ho di fronte. Del nome degli avversari. Della storia più o meno gloriosa che portano in campo. Noi giochiamo in undici e tutti e undici dobbiamo cercare solo di vincere qualsiasi partita.

Non si gioca sempre in undici?
È una falsa verità. No, non capita sempre. Un giornalista del Times ha recentemente fatto un esempio per spiegare l’alchimia che si è creata al Leicester. Se aspetta un istante le prendo l’articolo. (Passano trenta secondi, Ranieri doma l’archivio, torna al telefono nda). Eccolo, l’articolo.

Ci dica mister.
Un agronomo aveva fatto un esperimento in campagna con undici atleti. Ognuno di loro aveva uno strumento per valutare la forza individuale e doveva spostare un peso. Individualmente, ognuno dei ragazzi riusciva a muovere circa 80 chili. Ma se provavano a sforzarsi tutti insieme, la somma dei chilogrammi del peso spostato risultava inferiore alle prestazioni individuali.

Quindi?
Quindi non si muovevano da squadra. Eccellevano come individualità, ma non restituivano la stessa intensità se chiamati allo sforzo in comune. Al Leicester è successo il contrario. Tutti hanno dato tutto e tutti insieme nello stesso momento.

A Leicester è capitato. Qualcuno suggerisce che la squadra abbia giocato addirittura in dodici. Il dodicesimo, neanche a dirlo, sarebbe stato proprio lei.
Io non credo si possa vincere se non esistono le qualità di base. E le qualità di base, nella squadra che ho guidato, c’erano tutte.

La prima qualità da conservare per vincere?
La testa. Senza la testa non vai da nessuna parte.

Quella del Leicester è diventata una vicenda paradigmatica. Un esempio di come il più debole possa sovvertire i rapporti di forza.
Non darsi mai per vinti, qualunque mestiere si faccia e per quanto la situazione sembri brutta. Per quanto ti senta giù e creda di non potercela fare, hai sempre una riserva di energia a cui appellarti. Finita davvero, morte a parte, non è mai.

Ricorda cosa dicevano di lei dopo l’esperienza con la Grecia?
Ricordo benissimo. Mi hanno fatto passare per incompetente. Mi hanno detto che ero superato. Ma io dico: possibile che uomini che capiscono il calcio e lo giudicano quotidianamente, non comprendano che un allenatore quando incontra tre giorni prima di una partita calciatori che non ha avuto il modo di valutare e conoscere attentamente, non riesca a incidere come vorrebbe?

Non sembra difficile. E nonostante questo, le critiche furono feroci.
Però, mi creda, io non sento di avere rivincite da prendermi. So che lavoro faccio. Sono pagato molto bene per essere considerato l’unico colpevole se le cose vanno male. So come va il gioco. Non mi sono mai arrabbiato, né l’ho presa sul personale. E ho sempre pensato in positivo.

Ci dà un esempio?
Se un’avventura finiva all’improvviso, pensavo sempre: “È stata un’esperienza, ripartiamo”.

Poche ore fa, dopo il 2-2 con il Tottenham che vi ha resi ufficialmente campioni, John Terry del Chelsea ha detto parole bellissime su di lei.
Il ricordo che lascio alle persone con cui ho lavorato, la certezza che loro sanno che tipo di persona sia io, è la soddisfazione a cui tengo di più.

Ora rischia di sognare una semplice passeggiata, come accadeva al Totti che qualche anno fa rimpiangeva di non poter mettere piedi in Via del Corso senza essere assediato dai fan.
Continuerò ad andare al supermercato come ho sempre fatto. Non ho mai cambiato le mie abitudini in trent’anni ed è un po’ tardi per farlo adesso. Sono capace di viaggiare sull’aereo privato del presidente, come sull’autobus e in metro. Che problema c’è?

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