Nel Mare Adriatico contaminati sedimenti e cozze in prossimità di piattaforme offshore. Lo rivela il rapporto ‘Trivelle fuorilegge’ di Greenpeace, nel quale per la prima volta vengono resi pubblici e analizzati i dati del Ministero dell’Ambiente relativi all’inquinamento generato da oltre 30 trivelle attraverso sostanze chimiche pericolose, alcune delle quali associate a patologie gravi come il cancro. I dati contenuti nel dossier rivelano “contaminazioni preoccupanti da idrocarburi policiclici aromatici e metalli pesanti” spiega Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento. Che sottolinea: “Molte di queste sostanze sono in grado di risalire la catena alimentare”.

L’associazione aveva chiesto i dati di tutte le piattaforme attive nei mari italiani, ma dal Ministero sono arrivati solo quelli relativi al monitoraggio di 34 impianti, tra il 2012 e il 2014. Controlli eseguiti da Ispra e commissionati da Eni. “Il controllore – denuncia Greenpeace – è a libro paga del controllato”. Il risultato? Laddove esistono dei limiti fissati dalla legge, le trivelle assai spesso non li rispettano. “La situazione si ripete di anno in anno – denuncia Ungherese – ma ciò nonostante non risulta che siano state ritirate licenze, revocate concessioni o che il Ministero abbia preso altre iniziative per tutelare i nostri mari”.

Le piattaforme in Adriatico – Il Mare Adriatico ospita circa cento piattaforme di estrazione offshore, installate a partire dagli anni Sessanta. Vengono impiegate prevalentemente per lo sfruttamento di giacimenti di gas. La sola zona dell’Alto Adriatico Settentrionale (denominata Zona A nella classificazione del Ministero dello Sviluppo Economico) garantisce circa il 50 per cento annuo del totale del gas estratto a livello nazionale, sia in mare che sulla terraferma. Eppure il gas estratto in Italia soddisfa solo in minima parte (poco più del 10 per cento stando ai dati del 2013) il fabbisogno energetico nazionale. “Solo alcune piattaforme – si legge nel dossier – scaricano direttamente in mare (o iniettano in profondità) le acque di produzione e sono le uniche obbligate a effettuare i monitoraggi ambientali”. Estraggono tutte idrocarburi gassosi e sono di proprietà di Eni.

I dati sulle sostanze inquinanti – Nel corso del 2012 l’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) per conto di Eni, ha monitorato 33 piattaforme offshore, 34 nel 2013 e nel 2014. La verifica ha riguardato la qualità dell’acqua e la presenza di sostanze inquinanti nei sedimenti o negli organismi marini. Per quanto riguarda i sedimenti, i dati elaborati da Greenpeace mostrano una contaminazione ben oltre i limiti previsti dalla legge per almeno una sostanza chimica pericolosa nei tre quarti dei sedimenti marini vicini alle piattaforme.

Parliamo del 76 per cento dei campioni nel 2012, del 73,5 nel 2013 e del 79 per cento nel 2014. “I parametri ambientali sono oltre i limiti per almeno due sostanze – rivela il rapporto – nel 67% dei campioni analizzati nel 2012, nel 71% nel 2013 e nel 67% nel 2014. Tra i composti che superano con maggiore frequenza i valori definiti dagli standard di qualità ambientale alcuni metalli pesanti (cromo, nichel, piombo e talvolta anche mercurio, cadmio e arsenico) oltre ad alcuni idrocarburi. Alcune tra queste sostanze sono cancerogene e in grado di risalire la catena alimentare.

La relazione tra l’impatto dell’attività delle piattaforme e la catena alimentare emerge più chiaramente dall’analisi dei tessuti dei mitili prelevati nei pressi delle piattaforme. Circa l’86% del totale dei campioni analizzati supera il limite di concentrazione di mercurio consentito. Circa l’82% presenta valori più alti di cadmio rispetto a quelli misurati nei campioni presenti in letteratura; altrettanto accade per il selenio (77% circa) e lo zinco (63%).

Trasparenza e conflitto di interessi – Lo scorso luglio Greenpeace aveva chiesto, tramite istanza pubblica di accesso agli atti, di ottenere i dati di monitoraggio delle piattaforme presenti nei mari italiani. Il Ministero ha fornito solo i dati relativi a 34 impianti, dislocati davanti alle coste di Emilia Romagna, Marche e Abruzzo. “Delle altre 100 e più piattaforme operanti nei nostri mari, Greenpeace non ha ricevuto alcun dato – spiega l’associazione – o il Ministero non dispone di informazioni in merito (e dunque questi impianti operano senza piani di monitoraggio), oppure ha deciso di non consegnare a Greenpeace tutta la documentazione in suo possesso”.

I monitoraggi sono stati eseguiti dall’Ispra (un istituto di ricerca pubblico sottoposto alla vigilanza del Ministero dell’Ambiente) su commissione di Eni, proprietaria delle piattaforme oggetto di indagine. Amare le conclusioni di Greenpeace: “Il controllore è a libro paga del controllato”. “Quel che a nessun cittadino sarebbe concesso – dichiara Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima – viene invece concesso invece ai petrolieri, il cui operato è fuori controllo, nascosto all’opinione pubblica e gestito in maniera opaca”. E invita gli italiani a partecipare al prossimo referendum sulle trivelle del 17 aprile “e a votare ‘sì’ per fermare chi svende e deturpa l’Italia”.

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