Il passare degli anni ha portato globalmente grossi cambiamenti, anche nel mondo dell’alimentazione; spesso frutto di una maggiore consapevolezza riguardo agli sprechi o a ciò che è dannoso e ciò che è salutare per il nostro organismo. Sorprendono perciò non poco i risultati di due rapporti siglati dal Nutrition Research Center on Aging della Tufts University, nei pressi di Boston, che mostrano come i menù dei fast food a stelle e strisce siano cambiati solo in misura minima negli ultimi 17 anni (1996-2013) per quanto concerne porzioni e formulazioni dei prodotti.

La ricerca ha preso in esame i contenuti di calorie, sodio, grassi saturi e grassi trans dei piatti più popolari venduti in tre delle maggiori catene di fast food del Paese durante gli ultimi 17 anni. Quello che è emerso è che la media di calorie e grassi è rimasta costante, a livelli troppo elevati per il nostro organismo; unica eccezione quella riguardante le patatine fritte, più povere – per fortuna – di grassi trans. Nel dettaglio, a partire dal 2001 per le patatine è stato rilevato un minore contenuto di grassi, giustificato molto probabilmente dalle modifiche all’olio di frittura.

“Nelle tre catene – spiega Alice Lichtenstein, guida del team di ricercatori – le calorie totali per un pasto composto da cheeseburger, patatine e bibita si sono aggirate fra le 1.144 e le 1.757 nel corso degli anni e nei diversi ristoranti, rappresentando dal 57% all’88% delle circa 2.000 calorie che si dovrebbero introdurre in un giorno”. Secondo i dati più recenti in possesso dei ricercatori, il contenuto calorico medio di un pasto identico si aggira oggi nelle stesse tre catene tra il 65% e l’80% dell’introito energetico quotidiano, mentre per il sodio ci si spinge fra il 63% e il 91% della raccomandazione giornaliera. Percentuali che, ovviamente, lascerebbero poco spazio di manovra per gli altri pasti della giornata, causando in caso di mancate rinunce dolorosi sovraccarichi.

La diffusione di questi dati dovrebbe, nelle convinzioni degli studiosi, spingere a una maggiore consapevolezza da parte di consumatori e produttori, portando a qualche catena ad apportare modifiche che, se percorse con convinzione, porterebbero indiscutibili benefici per la salute di milioni di persone (negli USA e non solo), che potrebbero così godersi il proprio cheeseburger con meno preoccupazioni e sensi di colpa.

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