Il primo “philanthropy advisor” assunto in Italia da una banca si chiama Lorenzo Piovanello ed è entrato da poco più di un mese nel gruppo bancario svizzero Ubs. E’ un professionista del non profit con esperienza in diverse organizzazioni tra cui Amnesty International. Dovrà capovolgere il suo punto di vista: dalla ricerca (affannosa) di donatori è passato alla valutazione dei beneficiari, forse più rilassata ma ugualmente impegnativa. In linea con l’approccio di Ubs a livello internazionale, il suo compito principale verso i clienti sarà la consulenza nella creazione di una fondazione erogativa, lo strumento che permette di fare beneficenza in modo sistematico, con un orizzonte di lungo periodo. La notizia è rimasta confinata ai portali specializzati in finanza, ma l’iniziativa di Ubs è un segnale importante per il terzo settore italiano. Un indizio che l’era della donazione “romantica”, emotiva, sta finendo. O meglio: esiste ancora ed esisterà sempre nell’ambito della carità personale. Ma quando le cifre hanno un sacco di zeri (quello che negli Stati Uniti si definisce “great giving”) e donare diventa un impegno serio le cose cambiano. Tanto più oggi che le risorse scarseggiano e i bisogni espressi dalla società aumentano. Così l’Italia comincia a scoprire una professione che all’estero è già consolidata.

L’esperienza del mondo anglosassone – Negli Usa e nel Regno Unito, dove la beneficenza privata ha una lunga storia, le donazioni sono considerate una forma di investimento sociale, che deve dare un ritorno economico. Da molti anni imprese, fondazioni e famiglie facoltose si avvalgono della consulenza di specialisti per donare sulla base di elementi razionali: l’esistenza di un bisogno reale, la compatibilità con le proprie risorse, risultati sociali misurabili. Per avere un’idea Foundation Source, l’agenzia di philanthropy advisory più nota Oltreoceano, ha 1.100 clienti e gestisce 8 miliardi di dollari, oltre 6 miliardi di euro.

Il rischio della beneficenza inutile – In Italia c’è ancora diffidenza verso questa figura professionale, per due motivi: uno morale e uno materiale. Primo, pagare un consulente per fare del bene sembra qualcosa che “sporca” il bene stesso. Secondo, se quando una persona investe vuole sicuramente ridurre il rischio di perdere i soldi, quando dona ha invece già messo in conto di “non rivederli”. E dunque ha l’impressione di non rischiare niente. In realtà il rischio c’è ed è quello di fare una beneficenza inutile. Si tratta di un rischio sociale, non individuale: anche per questo in Italia sono ancora pochi a preoccuparsene. Inoltre i filantropi agiscono da soli e non fanno rete tra loro. “Credo che creare una community internazionale di filantropi possa essere un’occasione ottima per la crescita e la maturazione della filantropia in Italia – dice Piovanello – In Ubs abbiamo iniziato sia a livello internazionale che italiano a promuovere questa community”.

Il consulente fornisce strumenti, ma non fa nomi Ma che cosa fa nel dettaglio il “consulente del dono”? Cominciamo da una cosa che non fa e non deve fare: nomi e cognomi. “Io non suggerisco mai al filantropo specifiche organizzazioni alle quali donare – spiega Paola Pierri, coraggiosa philanthropy advisor indipendente dal 2009, dopo una lunga carriera in Unicredit. Piuttosto, per chi voglia intraprendere per la prima volta un’attività filantropica, cerco e analizzo le aree di bisogno sociale più adatte alla sua sensibilità, gli fornisco strumenti di analisi per valutare da solo organizzazioni, progetti e attività. Nel caso invece di fondazioni già attive, metto a disposizione della nostra clientela uno specifico “foundation check up”, che fornisce uno sguardo neutrale e competente, in grado di evidenziare potenziali aree di cambiamento e di suggerire strategie innovative. Ritengo fondamentale nella relazione con il cliente il rispetto delle sue inclinazioni e aspirazioni filantropiche”. Dunque il philanthropy advisor non va confuso con il fundraiser, che cerca donatori per una o più organizzazioni ed è retribuito da chi riceve i soldi, e nemmeno con il consulente in responsabilità sociale d’impresa, che di solito si concentra sulla progettazione di partnership tra profit e non profit e eventualmente le comunica all’esterno, ma non fa formazione né valuta l’efficacia sociale degli interventi.

Articolo Precedente

Volontariato, le associazioni cercano collaboratori. Ma serve formazione

next
Articolo Successivo

Tsunami Oceano Indiano, 10 anni dopo. Solidarietà da record per la ricostruzione

next