Ricominciare dalle armi. Questa, secondo una nota circolata in settimana tra i ministeri del governo neoeletto a New Delhi, potrebbe essere la prima misura concreta messa in campo dall’esecutivo targato Bharatiya Janata Party (Bjp), partito nazionalista hindu reduce da una vittoria elettorale senza precedenti nella storia della destra indiana, per rilanciare il settore produttivo nazionale e attirare nuovi investitori stranieri. Il ministro della Difesa Arun Jatley, secondo quanto riportato dalla stampa locale, avrebbe proposto al gabinetto di governo una modifica dei paletti che, fino ad oggi, limitavano la partecipazione di compagnie estere al settore bellico a joint venture con un tetto massimo fissato al 26% di Foreign Direct Investment (Fdi). Una misura, varata dal precedente governo Manmohan Singh nel 2001, che avrebbe dovuto attirare fondi stranieri senza compromettere il tessuto produttivo nazionale, saldamente in mano a compagnie private indiane. Abbattere il recinto del 26 per cento, permettendo quindi partecipazioni fino al 100% nell’industria manifatturiera di armamenti, secondo il nuovo governo potrebbe far cadere definitivamente la reticenza dei grandi produttori internazionali nel portare soldi e – soprattutto – tecnologie all’avanguardia nel settore bellico locale.

Tra il 2000 e il 2014, secondo i dati pubblicati da Business Standard, gli Fdi nel settore si sono fermati alla quota 4,94 miliardi di dollari complessivi: un’inezia, considerando il totale degli investimenti stranieri nello stesso periodo arrivati a 321,81 miliardi. La penuria di fondi stranieri nel settore, in coppia con la limitata competitività delle aziende indiane, ha contribuito a un disequilibrio nella bilancia commerciale indiana decisamente preoccupante. L’India, nel 2013, è stata per il secondo anno consecutivo il primo importatore globale di armamenti e, secondo uno studio dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), tra il 2009 e 2013 ha coperto il 14% delle importazioni mondiali di tecnologia bellica, tre volte tanto la Cina. Parallelamente, mentre Pechino figura al quinto posto tra gli esportatori mondiali di armamenti, l’India non rientra nemmeno nella top 20. La spesa sostenuta dal governo di Delhi per tenere in piedi e – formalmente – aggiornato il proprio arsenale, 30 miliardi di dollari all’anno, è meno di un terzo del budget impiegato da Pechino: soldi che la Cina investe in larga parte nella ricerca e sviluppo, alimentando il motore delle esportazioni.

L’India, al palo nella corsa alla produzione di armi, intende cambiare passo servendosi dei fondi stranieri, aprendo ulteriormente il proprio mercato nella speranza che nuovi centri di produzione possano creare un indotto che porti posti di lavoro nel paese, aprire la possibilità di acquisti “a km zero” per la Difesa nazionale e, soprattutto, proiettare l’India come nuovo esportatore di armi a prezzi concorrenziali, con un occhio alla domanda crescente nell’America del Sud. La proposta di legge, che secondo le indiscrezioni dovrebbe essere presentata al parlamento dal primo ministro Narendra Modi in persona nel mese di agosto, è stata accolta con diffidenza dal Centre of Indian Trade Unions, una delle principali sigle sindacali indiane, che ha giudicato la mossa “totalmente dannosa” rispetto agli interessi del tessuto produttivo locale.

Di tutt’altro segno la reazione delle compagnie indiane, d’accordo nell’abbattere il limite delle partecipazioni al 26% a patto che il governo imponga, in caso di maggiori quote azionarie controllate da entità straniere, il trasferimento obbligatorio di tecnologie belliche nel paese: una postilla che permetterebbe al paese di competere con più efficacia nel florido mercato bellico internazionale. Secondo IHS Jane’s Annual Defense Budget’s Review, il giro d’affari mondiale dell’industria bellica nel 2014 smuoverà 1,54 trilioni di dollari. Un’enorme opportunità di business che l’India non vuole lasciarsi scappare.

di Matteo Miavaldi

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