“Dietro ogni virtù c’è una vergogna” diceva Henry David Thoreau, “a volte ben maggiore, ma in genere ben nascosta”. Dietro l’apparente efficacia del sistema penale giapponese – che grazie alla discrezionalità (spesso arbitrarietà) dell’azione penale sbandiera il 99.5% di condanne e gestisce un sistema carcerario duro ma efficace nel ridurre il tasso di recidività e facilitare, dopo l’espiazione della pena, il reinserimento sociale – c’è il bubbone della pena di morte. Con i suoi purulenti, barbari corollari: crudeltà della detenzione (assoluto isolamento, con regole maniacali da seguire), inumanità dell’esecuzione (che arriva all’improvviso, a volte dopo pochi mesi, a volte dopo decenni), errori giudiziari.

Come quello che ha colpito il povero Iwao Hakamada, un ex pugile professionista accusato, 48 anni fa, di aver ucciso il suo datore di lavoro e la sua intera famiglia, in totale 4 persone. Condannato a morte definitivamente nel 1968, Hakamada, nel frattempo diventato il simbolo dei (pochi) abolizionisti in Giappone per la sua lunga e crudele attesa nel braccio della morte (46 anni isolato in una cella delle dimensioni di uno sgabuzzino ne hanno minato la salute mentale, dicono i suoi avvocati) è stato liberato giovedì scorso, guarda caso proprio nel giorno in cui, a Londra, Amnesty International, che per anni ha pubblicizzato e denunciato il suo caso, annunciava il suo rapporto annuale sulla pena di morte. Dopo sei tentativi falliti, angherie e persino minacce nei confronti dei suoi coraggiosi e cocciuti legali, l’Impero ha ceduto. Il tribunale di Shizuoka, appena rinnovato nei suoi ranghi (il che fa ben sperare: segno che i giudici più giovani mostrano maggiore sensibilità verso i diritti umani, compresi quelli dei “criminali” veri o presunti) ha disposto la revisione del processo e ordinato, nel frattempo, la sua imediata scarcerazione.

“Ogni indugio sarebbe una ulteriore, inutile e ingiustificata fonte di sofferenza” si legge, con toni inusuali per la burocrazia giudiziaria locale, nell’ordinanza del tribunale. Il cui presidente ha convocato addirittura una conferenza stampa, sbilanciandosi: “L’ipotesi che alcune prove risultate decisive nel primo processo possano essere state fabbricate dalla polizia è reale”. Chi conosce un minimo il linguaggio ufficiale delle autorità giapponesi, in genere estremamente refrattarie all’ammissione di responsabilità e al (sincero) pentimento, ha colto il messaggio. Il processo di revisione, ammesso che si farà, sarà una formalità. L’Impero ha ammesso il suo errore e ha già deciso che Hakamada verrà assolto. Così come, 46 anni fa, era stato deciso, in una cella di polizia dove Hakamada venne picchiato e minacciato per estorcergli una confessione, che sarebbe stato condannato a morte. Il caso di Hakamada non è certo l’unico errore giudiziario.

Nel dopoguerra, sono sei i casi di condannati a morte che dopo anni di detenzione e di immaginabile sofferenza sono stati assolti e liberati. L’ultimo, in ordine di tempo, è Sakae Menda, 33 anni nel braccio della morte, un caso noto anche in Europa e in Italia, dove è venuto anni fa ospite della Comunità di Sant’Egidio, da sempre molto attiva nella battaglia per l’abolizione – o quantomeno l’estensione della moratoria – della pena di morte nel mondo. Proprio qui a Tokyo, l’anno scorso, durante un convegno sul tema organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio in collaborazione con l’Istituto di Cultura e l’Ambasciata, ci fu la drammatica e al tempo stesso commovente testimonianza di Norimichi Kumamoto (nella foto), giudice a latere del primo processo contro Hakamada. Salì sul palco, sulla sua sedia a rotelle e davanti ad una folta platea formata soprattutto da giapponesi ebbe il coraggio di raccontare come fu costretto, dal presidente del tribunale, a co-firmare la condanna a morte: “Ero tutt’altro che convinto – ha detto l’ex giudice – ma il presidente ci impose di firmare, sostenendo che per la polizia, che tanto si era data da fare, una assoluzione sarebbe stata un vero e proprio affronto. Alla fine, per punire la mia perplessità, mi costrinse, io che ero contrario, a scrivere la mativazione”.

Questo era – e per certi versi è ancora – il Giappone. Un paese dove si uccide prima l’anima e poi il corpo di un condannato a morte e dove la polizia detiene di fatto un potere paragiurisdizionale, fondato su leggi, procedure e consuetudini di feudale memoria (pensate: il cosiddetto “fermo di polizia” è di 23 giorni, rinnovabili, per singolo addebito) e sulla generale ignoranza, ma anche storica acquiescenza, dei cittadini. Una sudditanza condivisa anche dalla magistratura, che grazie all’arbitrario ricorso all’art 248 (quello che prevede la discrezionalità dell’azione penale) non fa che omologare, di fatto, i verbali della polizia, ottenuti dopo lunghi ed estenuanti interrogatori e senza la presenza dei difensori.

“Un sistema davvero barbaro e primitivo – spiega l’avvocato Yuichi Kaido, noto penalista e abolizionista – dove la colpevolezza e dunque la condanna finale di un imputato si decide in fase di istruttoria di polizia, senza il necessario contraddittorio e le garanzie per la difesa. Il resto è pura liturgia. Se l’imputato viene rinviato a giudizio, la condanna, e perfino la sua consistenza, è già decisa. Io sono considerato un eroe, perché ho ottenuto, in 40 anni di attività, 4 piene assoluzioni”. Chissà se la liberazione di Hakamada – che al momento della comunicazione, in carcere, ha reagito insultando le guardie, pensando ad una presa in giro – troverà un minimo di sponda sui media nazionali, chissà se qualche politico troverà il coraggio di approfittarne per aprire un vero e pubblico dibattito. Tempo fa Shizuka Kamei, un ex capo della polizia entrato in politica e nel tempo trasformatosi in uno dei pochi sostenitori dell’abolizione della pena di morte, commentò con amarezza che il Giappone avrebbe abolito la pena di morte un giorno dopo l’eventuale decisione degli Stati Uniti. “Per questo noi abolizionisti seguiamo con interesse il numero degli stati americani che la cancellano o la sospendono”.

Peccato che un Paese come il Giappone, la cui civiltà è sicuramente più antica ed evoluta di quella americana, aspetti, anche in questo settore, il nulla osta di Washington. Peccato che i politici oggi al governo, che a parole cercano di rilanciare il patriottismo, non si rendano conto di quanto un gesto autonomo di civiltà, giustizia e soprattutto saggezza potrebbe rilanciare l’immagine, francamente sbiadita, del Giappone. Che per ora si trova, che gli piaccia o meno, nel cesto dei “cattivi”. Che a parte gli Stati Uniti, vede paesi con cui il Giappone non aspira certo a paragonarsi: Iran, Iraq, Bengla Desh. Ma sopratutto l’odiatissime Cina e Corea del Nord. Non è certo una bella compagnia.

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