“Quando avevo nove anni il mio eroe non era Tex Willer, ma il maestro della banda di Novi di Modena. Posso dire di aver iniziato a suonare la fisarmonica perché volevo diventare come lui, anche se non potevo certo pensare che avrei trascorso la mia intera vita su un palco. Ho cominciato a esibirmi all’oratorio e alle feste di paese, e in breve tempo sono diventato una sorta di giradischi ambulante: prendevo mille lire a esibizione, a patto che suonassi i successi del momento. Erano gli ultimi mesi del 1959, alla radio mamma ascoltava Domenico Modugno, mentre papà sfogliava le pagine dell’Unità cercando di capire gli oscuri motivi che avevano spinto il segretario generale del Partito comunista dell’Urss, Nikita Kruscev, a incontrare il presidente americano Eisenhower. Io vivevo tutto come una continua scoperta, con le stagioni che si alternavano senza sosta e l’attesa della primavera quando, di nascosto, mi affacciavo per ascoltare l’orchestra della sala da ballo di Novi. Si chiamava Pian delle Stelle e per me aveva lo stesso profumo dei sogni. Poi, una sera di nebbia del gennaio del 1963, in un locale di Trecenta, in provincia di Rovigo, feci la conoscenza di un tipo magro come un chiodo, con un accenno di barba e un paio di occhialoni sul naso. Il suo nome era Augusto…”.

Ecco di cosa parla “Io vagabondo” (Arcana editore, Collana biografie – pp. 192 – 17.50 euro), il romanzo della vita di Beppe Carletti, leader dei Nomadi, scritto con Andrea Morandi e presentato alla Feltrinelli di Bologna.

Parla di Beppe, un ragazzo della provincia modenese, della sua amicizia con un altro che si chiamava Augusto (Daolio) e di come la loro amicizia sia nata, abbia vissuto e non morirà grazie alla musica e alle persone che l’hanno ascoltata.

Una storia semplice, ma di quella semplicità destinata ai grandi “…che a volte fare le cose semplici è più difficile, siam capaci tutti a ingarbugliare le cose con tanti suoni e accordi…”  quelli che anche, è il caso di Beppe Carletti, dopo mezzo secolo di successi e 15 milioni di dischi venduti sa benissimo che la vita è un gioco (sublime e tremendo) e che quello che è accaduto è successo perché “…boh, si vede che doveva andare così”.

Una vita, quella di Carletti, nella quale la musica ha anche tracciato una vocazione umanitaria e  una strada verso incontri inattesi, che si trattasse di Arafat o del Dalai Lama, oppure di quei ragazzini che a Cuba attendevano i quaderni e le matite, e suonavano in scuole di musica così povere da avere chitarre senza corde sulle quali imparavano a mettere le dita “Vedrai quando arriveranno le corde, che suono…” diceva il maestro di musica a quei ragazzi.

I Nomadi sono anche questo, ascoltare tutti, ascoltare tutto il suono della vita. “Come quei bigliettini dei nostri fan che leggiamo durante i concerti. Sono dediche, oppure a volte semplicemente pensieri quotidiani…”.

Il romanzo/biografia narra infatti anche del particolarissimo rapporto che c’è fra i Nomadi e il loro pubblico, una storia fatta di ingredienti semplicissimi; parlare, ascoltare, non negarsi mai “Quando abbiamo iniziato, nel ’63  – dice Carletti –  suonavamo nelle balere, e ogni tre/quattro brani ci fermavamo per bere un bicchiere e fare due chiacchiere con le persone. Noi siamo ancora questo, non vorrei essere nient’altro…”.

I luoghi, quelli con l’acqua, son sempre l’inizio di una storia.

“Riccione nel ’63 era come andare a New York adesso – prosegue Carletti, ci caricarono sul pulmino e siamo stati là 77 giorni, suonammo tutta l’estate e grazie alla musica ci trovavamo in un posto che non avremmo mai potuto permetterci, questo fu per noi capire che stava iniziando un’avventura”.

Ancora i luoghi, Novellara “Stavamo provando Dio è morto in una stanza, quando arrivò un nostro amico per dirci che restando lì non ce l’avremmo mai fatta, che dovevamo andare via, a Roma, che la musica era via da casa nostra. Per noi fu facile sorridere e rispondergli che se le cose avessero dovuto fermarsi, ce ne saremmo volentieri tornati nelle nostre balere a far ballare le persone. Chi non capiva la nostra non ricattabilità non capiva lo spirito dei Nomadi. Non abbiamo mai cercato il successo, ci è solo capitato lì davanti…”.

Ma il successo li attendeva e, anche un po’ li spaventava… “Ad un certo punto del nostro cammino siamo stati i primi indipendenti contro voglia, ci facemmo una nostra etichetta perché nessuno ci voleva, e non immaginavamo che poi, una volta ritornati ad etichette multinazionali, il successo sarebbe stato così corposo. Bastò un incremento di 40.000 copie per far sì che un giorno, Augusto mi dicesse Oh mica tanto successo eh, che io voglio girar per strada tranquillo…”.

Un successo che li ha portati ad incidere ad Abbey Road negli studi dei Beatles “Eravamo della stessa ditta – dice Beppe riferendosi alla casa discografica – è bastato chiedere e il sogno di incidere nello studio dei Beatles si avverò. Oh, intendiamoci, per un po’ quel disco non vendette nulla, la critica ce lo massacrò…”. Un rapporto alterno quello con la critica… “Dicevano che avevamo solo tre accordi, ok, ma Bob Dylan quanti ne ha? E poi l’unica cosa che mi dispiace è che la critica si sia accorta di Augusto, solo dopo che è morto. Quando qualcuno vale devi riconoscerglielo subito, finché c’è. I paginoni post mortem o negli anniversari, non servono a niente”.

L’amicizia fra Augusto Daolio e Beppe Carletti è una di quelle infinite.

“Non abbiamo mai litigato, non ce n’era bisogno ognuno sapeva cosa doveva fare e lo faceva, con lui ho vissuto, suonato, pianto, mi sono cambiato nei camper…” ma forse la loro è una di quelle amicizie che per raccontarle, basta partire dalla fine “Stava morendo, lottava col suo male, e un giorno mi fa Oh Beppe, quando starò bene prendiamo le nostre donne e andiamo a fare il giro del mondo?”.

Nomadi fino alla fine.

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