Tra i protagonisti silenziosi del diciottesimo Congresso del Partito Comunista cinese, c’è anche l’Esercito di Liberazione popolare. Si tratta di un potenziale umano di 2 milioni e 300mila unità. Con un budget di circa 130 miliardi di euro (un quarto della spesa americana), che dovrebbe aumentare e non di poco entro il 2035. Un elemento fondamentale nella corsa al potere politico in Cina per più motivi: per i soldi in ballo e perché i militari cinesi, a causa delle crescenti tensioni in Asia, stanno alzando la voce.

Non è un caso dunque, se la notizia più rilevante in questi giorni di Congresso sia quella relativa a chi sarà capo della Commissione militare centrale: un ruolo che di solito spetta al Presidente, ma che tradizionalmente in Cina può venire occupato anche da chi ha appena abbandonato il mandato presidenziale. Fece così Jiang Zemin e potrebbe fare così anche l’attuale segretario uscente Hu Jintao. Essere a capo della Commissione militare significa determinare molti fattori di politica estera e avere l’esercito dalla propria parte, come deterrente politico interno. Significa, inoltre, effettuare nomine che di fatto creano una colonizzazione del potere.

Stando alle ultime notizie, secondo fonti anonime citate dal quotidiano di Hong Kong South China Morning Post, Hu Jintao sarebbe però pronto a lasciare l’incarico nelle mani di Xi Jinping, per facilitarne una successione tranquilla. Secondo fonti citate invece da Bloomberg, Hu Jintao sarebbe intenzionato a rimanere a capo dell’esercito per altri due anni. Le contrattazioni sono in corso. Del resto Hu Jintao ha fatto piazza pulita dei generali vicini all’epurato Bo Xilai, nell’ultima tornata di nomine, ed era sembrato molto determinato a rimanere ancora due anni alla guida dell’esercito, per completare il suo decennio con una presenza costante, specie nel momento in cui il neo presidente Xi Jinping deve puntellare la sua forza politica interna.

L’esercito cinese infatti scalpita: la situazione nel mar cinese del sud è sempre più tesa, quella con il Giappone per le isole contese, Diaoyu per i cinesi, Senkaku per i giapponesi, ha dato vita a manifestazioni violente in Cina, dietro le quali non pochi hanno sospettato esserci la mano di papaveri dell’esercito. Infine l’elezione di Barack Obama conferma i timori cinesi di una manovra americana in Asia da tenere sotto controllo, rafforzando la propria difesa. In Cina la chiamano heping jueqi, crescita pacifica, ma i numeri dicono che la Cina si sta armando e non poco: un paio di mesi fa è stata presentata la Liaoning, la novella portaerei cinese, creata dalla vecchia nave sovietica, passata da mani ucraine, diventata poi un casinò galleggiante a Macau e ora fiore all’occhiello della Marina cinese (un settore da potenziare, come sottolineato anche da Hu Jintao nel suo discorso di apertura del Congresso), mentre il bilancio militare della Cina avrebbe superato il Giappone come più grande in Asia, registrando un aumento annuale del 13,4 per cento.

Al solito c’è una guerra di numeri: secondo i dati dell’ Istituto internazionale di ricerca sulla pace a Stoccolma, la spesa militare cinese sarebbe di oltre 140 miliardi dollari. Secondo Pechino, i numeri sarebbero leggermente più bassi: gli investimenti sarebbero saliti ‘solo’ di 25 miliardi di dollari nel 2011, rispetto ai 7,3 del 2000. In ogni caso tanti soldi. Resta da capire chi li gestirà e come. Nel caso in cui Hu Jintao dovesse mantenere il controllo dell’esercito è ipotizzabile che la Cina prosegua la strategia a tenaglia, o del filo di perle: insediamenti strategici dal Pacifico all’Oceano Indiano, nell’ambito della crescita pacifica. Più avvertimenti che altro. Dovesse prendere il comando anche dell’esercito, il neo Presidente, gli scenari sarebbero più sfumati: ci sarà da capire quanti uomini ai vertici sono controllati da Xi e quale sarà il suo approccio alla politica estera. Il nuovo Imperatore della Cina, ad oggi, è ancora è un mistero politico.

di Simone Pieranni

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