Impossibile pensare che per un po’ non c’avesse almeno sperato. Eppure quando chi gli stava intorno, in quei giorni di metà aprile del 2013, eccedeva nell’entusiasmo, lui più che altro ostentava disillusione. “Il gioco della politica lo conosco bene, ci sono stato dentro molto a lungo”, sorrideva amaro. E aveva ragione. Che la scelta fosse ricaduta su Giorgio Napolitano lo apprese all’aeroporto di Bari. Qualcuno gli suggerì di annullare l’incontro: ma lui non rinunciò al dibattito pubblico già programmato: “Deluderei la gente che è lì ad aspettarmi”. E ad aspettarlo erano in tanti, al teatro Petruzzelli. Lo accolsero con una standing ovation, scandendo il suo cognome in un coro dal ritmo martellante, lo stesso che in quelle ore riempiva Piazza Montecitorio. “Presidente, presidente”, continuava a urlare la platea. E lui a quel punto non nascose un certo compiacimento: “È il riconoscimento alla vita e alle poche opere di un uomo che è sempre stato e continua ad essere un uomo della sinistra italiana”. La stessa che in quel momento lo tradiva, rifiutando di eleggerlo al Quirinale per non accodarsi alla proposta di un Movimento Cinque Stelle appena approdato in Parlamento.

La politica, tra passione e risentimento
Sta tutto in questa conflittualità, il rapporto di Stefano Rodotà, morto il 23 giugno 2017 a Roma, con la politica. Un rapporto fatto di passione e di risentimento: tipico di chi dà molto più di quanto non riceva, ma accetta la cosa quasi con serenità. “Deluso?”, lo incalzavano i cronisti in quelle ore concitate. “E perché mai?”, replicava lui. “Anzi, questa inaspettata popolarità conferma che devo continuare a lavorare come ho sempre fatto, occupandomi soprattutto dei diritti, che sono la mia mania”. Risposta che a qualcuno apparve artificiosa, ma che ancora oggi dice molto della natura di un uomo che ha consumato la sua esistenza nell’impegno inesausto in due lucide, ostinate passioni. E sarebbe difficile dire se nei suoi 84 anni di vita – di cui oltre metà vissuti accanto alla moglie Carla – sia prevalso il politico o il giurista. Difficile e forse anche inutile, visto che il primo a rinunciare a separare i due campi era spesso proprio lui. Che nel corso delle lezioni in università faceva di continuo riferimenti all’attualità politica, e che nei suoi interventi in Parlamento si accaniva sulla lettura dei codici, sul rispetto delle regole in un modo quasi fastidioso per chi tentata di contraddirlo. “È un presuntuoso”, disse di lui Bettino Craxi, che non ne sopportava il puntiglio da accademico né l’emotività nel parlare.

Da Moravia e Pasolini a Il Mondo di Pannunzio
Due passioni, quella per lo studio e quella per la politica, che Rodotà assimila sin bambino, da un padre insegnante di matematica e iscritto al Partito d’Azione, ma che in lui maturano col tempo. Nella biblioteca di casa, a Cosenza, i volumi del nonno avvocato non lo attraggono affatto: “Preferivo Balzac”. Arrivato a Roma per l’università, frequenta i Circoli del Cinema della Capitale, dove incrocia anche Moravia e Pasolini. Bazzica per quei locali anche Ettore Scola, col quale si ritroverà, qualche decennio più tardi, compagno nel governo ombra varato da Achille Occhetto nel 1989. La tentazione di provarsi come sceneggiatore, all’epoca, ce l’ha anche Rodotà, che alla fine però sceglie giurisprudenza. E, contemporaneamente, l’impegno politico. Ha vent’anni quando s’iscrive all’Unione goliardica italiana: lì conosce Marco Pannella. Poi le amicizie con Luigi Spaventa e Tullio De Mauro, l’incontro folgorante con Mario Pannunzio e l’adesione al Partito radicale. “Per chi era ‘democratico’ come lo ero io allora, cioè di sinistra ma non comunista, Il Mondo di Pannunzio era un faro”. Comincia a distribuirlo di notte, quel giornale, e ben presto finisce per scriverci.

La telefonata di Berlinguer e lo scontro con Pannella
La laurea nel ’55, una proposta di lavoro da parte di Adriano Olivetti rifiutata per dedicarsi alla ricerca. Lo studio e l’insegnamento, la politica attiva che per un po’ resta in secondo piano. Mentre l’amico dell’Ugi diventa il leader dei Radicali, Rodotà arriva a reinventare di fatto, alla soglia dei 30 anni, il sistema della responsabilità civile extracontrattuale. Tecnicismi che magari dicono poco ai non addetti ai lavori: ma che nel mondo del diritto italiano segnano una rivoluzione. “Eravamo dei pazzi, e Stefano era un savio”, racconterà, in riferimento a quel periodo, proprio Pannella. Non è un complimento. E infatti l’articolo, uscito nel maggio del 1979 su Panorama,  prosegue così: “Come spesso accade, questo ‘savio’ si è ora imbarcato in una impresa temeraria, non coraggiosa”. Cosa succede? Lo spiega lo stesso Rodotà, in una replica non meno risentita dell’accusa. “Sono probabilmente colpevole d’aver accettato, come Marco scrive, di farmi ‘tranquillamente eleggere deputato indipendente dalla direzione del Pci’, invece che personalmente da lui. Che dire? forse soltanto che preferisco ancora le delibere collegiali alle investiture carismatiche”. L’offerta di candidarsi gliela formula a telefono Luigi Berlinguer. E Rodotà l’accetta, nonostante in quei mesi arrivi a contestare con forza la scelta di Botteghe Oscure di difendere la Legge Reale – “una legge liberticida”, la definisce lui insieme, guarda caso, ai Radicali – dopo averla condannata nel ’75.

La presidenza della Camera sfiorata e l’addio al Pds
Un rapporto che comincia problematico, e che problematico resterà nonostante le puntuali rielezioni alla Camera. Nel novembre del 1984, tanto per dirne una, abbandona polemicamente la Commissione Bozzi per la riforma della Costituzione: “Obbedisce soprattutto a logiche propagandistiche e di facciata”, denuncia lui. E infatti non combinerà nulla. Ma è il 3 giugno 1992, il giorno in cui si consuma lo strappo definitivo. Un’anticipazione di quello che accadrà più di vent’anni dopo. Anche in quel caso, ad abbandonare Rodotà nel segreto dell’urna sono i suoi compagni della sinistra; anche in quel caso, la sua bocciatura coincide con il successo di Napolitano. In molti indicano proprio Rodotà come naturale successore di Oscar Luigi Scalfaro – nel frattempo eletto al Quirinale – allo scranno più alto di Montecitorio. È Rodotà, del resto, il vicepresidente della Camera; è lui che, una settimana prima, ha diretto lo spoglio che ha sancito l’apoteosi del leader della Dc, che aveva deciso di abbandonare l’Aula presagendo già l’esito di quel sedicesimo scrutinio e volendo evitare di autoproclamarsi. Ma la trama si complica: d’improvviso Occhetto tentenna, Massimo D’Alema rimugina. La verità è che il Pds ambisce ad entrare in maggioranza, e dunque non può imporre al vertice della Camera un uomo che non sia gradito anche alla Dc e al Psi. Molto più facile, si legge nei retroscena di quei giorni, “trovare la convergenza sul migliorista Napolitano che non sul radical-democratico Rodotà”. Il quale non si ritira fino a che non gli viene imposto di farlo, con tanto di accusa per non essersi fatto da parte spontaneamente. Anticipazione beffarda, pure questa, del 2013. “Una piccola schiera di imbecilli ha ridotto tutto a una fame di poltrone che, se fosse esistita, molti erano pronti a saziare con ragguardevoli bocconi”, scrive in un comunicato che preannuncia le sue dimissioni da presidente del Pds.

Da garante della Privacy alle battaglie per i beni comuni
Nel ’94 non si ricandida. Assiste all’avvento di Silvio Berlusconi dall’esterno del Palazzo, tornato ormai all’altra sua passione. Nel marzo del ’97 la nomina a presidente dell’Autorità garante per la Privacy: un’entità del tutto nuova, dai connotati indecifrabili per milioni d’italiani ai quali Rodotà si sforza di spiegare l’importanza della nuova istituzione: “È un momento storico”, esulta in un’intervista dell’epoca. Curioso e vitale, ipercinetico a dispetto della vecchiaia che avanza, s’impegna nella lotta per i referendum nel 2011 e per l’acqua pubblica nel 2012, per i lavoratori di Pomigliano nel 2013 e per i diritti civili sempre. In una sola espressione, per i beni comuni (espressione di cui del resto lui stesso registrava l’abuso: “L’inflazione – scherzava – non è un pericolo soltanto in economia”).

“Maniaco dei diritti, uomo della sinistra italiana”
Dicono che non sopportasse di essere dileggiato: s’infuriò, pare, per una sua imitazione ad opera di Dario Ballantini. Eppure nella battaglia più recente che ha combattuto, quella contro la riforma costituzionale promossa da Matteo Renzi, ha accettato di buon grado perfino le bassezze peggiori. Tipo quelle di chi lo identificava come il “capo del partito dei parrucconi”. Ma l’insolenza che più lo faceva sorridere era un’altra: nella primavera del 2014, Il Foglio di Giuliano Ferrara criticò il suo presunto volersi accreditare come esperto della Carta, lui che era solo un civilista. Sorrideva perché in realtà per anni, ogni volta che nei dibattiti pubblici lo si presentava invece, un po’ sbrigativamente, come un costituzionalista, lui recuperava un vecchio adagio assai diffuso tra i giuristi: quello secondo cui “il diritto è civile, il fatto è penale, il romanzo è commerciale, il nulla è costituzionale”. Dovendo trovare, ora, poche parole per definirlo, forse si potrebbe affidarsi a quelle che lui stesso scelse per sé, nel trambusto di quel sabato d’aprile del 2013. Maniaco dei diritti, uomo della sinistra italiana.

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