L’Arabia Saudita avrà, per i prossimi quattro anni, una rappresentanza tra i 45 membri che costituiscono la Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne (Uncsw), l’organismo Onu più impegnato nella lotta per l’uguaglianza di genere e l’avanzamento delle donne. Una nomina in contrasto con la situazione interna alla monarchia del Golfo che occupa la 141esima posizione su 144 del Report sulla Disparità di Genere 2016 del Forum Economico Mondiale. “Eleggere l’Arabia Saudita tra i membri che devono occuparsi di proteggere i diritti delle donne – ha commentato Hillel Neuer, direttore della ong UN Watch che si occupa di monitorare l’operato delle Nazioni Unite – è come mettere un piromane a capo dei pompieri della città. È assurdo”.

Il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite, di cui l’Uncsw fa parte, elegge i 45 membri della Commissione con mandato di quattro anni. Il voto è a scrutinio segreto ed è proprio nella riservatezza dell’urna che “almeno cinque Stati membri”, secondo quanto riportato da Un Watch, hanno dato la loro preferenza al rappresentante del regno saudita. “Si tratta di un’elezione che dipende dagli Stati membri – ha spiegato Stephane Dujarric, portavoce del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres – il Segretario Generale non ha potere in questo caso”. Parole che non sono bastate a frenare le immediate polemiche sollevatesi dal mondo delle organizzazioni che difendono i diritti umani.

Uno sdegno simile a quello che ha visto come protagonista, a settembre 2015, sempre il regno dei Saud, quando un loro rappresentante fu nominato a capo del Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu, nonostante il Paese detenga uno tra i più alti numeri di esecuzioni capitali del mondo e le violazioni dei diritti umani siano all’ordine del giorno. “Ѐ assurdo che l’Arabia Saudita sieda alla Commissione sullo status delle donne come Stato membro – ha dichiarato Rothna Begum di Human Rights Watch – Come può promuovere i diritti delle donne nel mondo mentre nel loro Paese continuano a discriminare il genere femminile, trattando le donne come una minoranza?”.

Le cronache raccontano ancora di un Paese dove le donne, fin dalla nascita, sono affidate a un tutore, in genere un maschio della famiglia, prima, e il marito, poi, che dà loro l’autorizzazione o meno per sposarsi, studiare, lavorare, curarsi, spostarsi dalla propria città. Praticamente a vivere. L’Arabia Saudita è ancora un Paese dove le donne devono portare avanti battaglie lunghe anni per guidare, per andare in bicicletta, battaglia vinta solo pochi anni fa ma che prevede, comunque, la presenza di un tutore in caso d’incidente, o per praticare sport di squadra. “Ѐ importante – ha commentato Helen Clark, ex primo ministro della Nuova Zelanda e oggi a capo del Programma Sviluppo delle Nazioni Unite – supportare coloro che nel Paese stanno lavorando per cambiare la condizione delle donne. Le cose stanno cambiando, ma lentamente”. Un esempio è il decreto reale del 2011, messo in atto per la prima volta alle elezioni del 2015, che dà alle donne saudite la possibilità di votare e di candidarsi.

Cambiamenti lenti, quelli a cui fa riferimento Clark, e che spesso rappresentano solo un piccolo sforzo di facciata per limitare le proteste delle ong impegnate in materia di diritti umani. Come nel caso della presentazione a metà marzo del Consiglio per le Ragazze di Qassim, provincia saudita, voluto proprio da Re Salman: un Consiglio per valorizzare il ruolo delle donne nella società saudita composto, però, solo da uomini. Gli organizzatori, riporta The Independent, hanno poi ribattuto alle accuse mosse nei confronti del nuovo Consiglio: delle donne sarebbero state coinvolte nel lancio progetto, ma da una stanza separata.

Twitter: @GianniRosini

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